Torino, 3 dic – “Siamo gli eredi della tragedia di Superga, sentiamo e viviamo ogni giorno la responsabilità di ciò”. Orgoglio e sofferenza, squadre imbattibili e indimenticate sciagure – non solo calcistiche. Cosa significhi essere del Torino ce lo spiega nella sua esaustiva sintesi un ragazzone di centonovantaquattro centimetri che risponde al nome di Alessandro Buongiorno. Classe ‘99, piede mancino, di professione fa il difensore centrale. Torinese dalla nascita, torinista di famiglia, nelle ultime uscite il giovane braccetto di Juric si è guadagnato i galloni da capitano. Con l’essenza granata – unica e controversa – concretizzatasi fin dal battesimo in prima squadra. Era il 2018, esordio e infortunio dopo soli otto minuti nel “giorno più bello ma allo stesso tempo il più brutto della mia vita”.
La più antica d’Italia?
Centosedici anni di storia. O meglio: di tradizione, mito e leggenda. Il 3 dicembre 1906 nasceva infatti – in una birreria dell’omonima città – il Torino, compagine blasonata ma allo stesso tempo espressione popolare del capoluogo piemontese. Non fu una creazione ex-novo, bensì l’unione di diverse forze che già animavano la città sabauda, primo centro calcistico del nostro paese.
In quella fredda sera di fine autunno un gruppo di dissidenti della Juventus e i dirigenti del Torinese (che già nel 1900 fece fronte comune con l’Internazionale del Duca degli Abruzzi) ponevano le basi per quella che – seppur non ufficialmente – può essere considerata la società più antica ancora in attività dello stivale. Se tale primato appartiene infatti al Genoa (1893), la compagine presieduta dall’esploratore Luigi Amedeo di Savoia anticipò il Grifone di almeno un biennio.
Una profetica scelta
Forse per contrastare il borghesismo dei cugini bianconeri, il Toro ha sempre rappresentato il ceto operaio, la parte bassa della popolazione. Profetica la scelta dei colori sociali: via fin da subito il giallonero, spazio al granata. Un omaggio, secondo la leggenda, alla Brigata Savoia che nel 1706 – dopo aver contribuito alla difesa di Torino respingendo le soverchianti forze francesi – adottò un drappo color sangue.
Il Grande Torino
Con la gestione Cinzano – la famosa famiglia produttrice di liquori – arrivano due scudetti. Il primo, conquistato nel 1926/27, però revocato per un mai chiarito tentativo di corruzione. Ma è a cavallo della seconda guerra mondiale che il Toro entra nel mito, vincendo tra il 1943 e il 1949, cinque scudetti consecutivi. Una squadra che irrora la nazionale fino a dieci undicesimi, una compagine che nel “quarto d’ora granata” è capace di realizzare l’impossibile. Solo l’ineluttabilità del destino avrebbe potuto fermare l’imbattibile alchimia creata dagli uomini capitanati da Valentino Mazzola. E così fu, con uno schianto tremendo il 4 maggio 1949. A Superga, sulla collina dove poco più di duecento anni prima il duca Vittorio Amedeo II ottenne l’aiuto divino per difendere una città assediata dai transalpini, s’infrange il volo che trasporta gli Invincibili di ritorno da un’amichevole continentale.
Il dramma Meroni e il settimo scudetto
I sabaudi impiegano una ventina d’anni prima di tornare di nuovo protagonisti. E’ l’estro di Gigi Meroni nella seconda metà degli anni sessanta a guidare la rinascita del Torino. Ma proprio all’inizio del campionato 1967/68 il George Best italiano muore in un incidente stradale: nonostante ciò i suoi compagni al termine della stagione riusciranno ad alzare la Coppa Italia. Qualche anno più tardi saranno le reti di Pulici e Graziani a confezionare il settimo e ultimo scudetto.
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Il resto è storia (più o meno) recente con la quinta coppa nazionale ad inizio anni novanta e un tutto sommato fallimento indolore agli albori del nuovo millennio. Un ritorno al futuro ci porta all’orecchio – ancora una volta – le parole del nuovo capitano. “Poter indossare questa fascia è motivo di grande orgoglio. Dire grazie non basta, serve ripagare sul campo, con sudore e impegno”. Rampante e determinato come l’animale totemico da sempre presente sul petto. Come l’abbondante secolo della Torino granata.
Marco Battistini