Roma, 8 giu – “Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una”. Il tempo per George Orwell era un concetto superato, e la vita di tutti i giorni non generava più alcun conforto. Ciononostante, a sessantasei anni dalla prima pubblicazione di 1984 per i tipi della Secker and Warburg, vale oltremodo la pena di riprendere tra le mani questo capolavoro della letteratura distopica per celebrarne l’importanza e l’attualità.
Sin dai tempi di Senza un soldo a Parigi e Londra (1933) ed arrivando a La fattoria degli animali (1945) George Orwell incubò una profonda dissonanza con la società a lui contempornea: già da bambino infatti era stato affascinato dalla fantasia futuristica di Herbert Wells, così come in età più avanzata da quella di Aldous Huxley. Solo però verso la fine della sua vita – Orwell morirà a 46 anni, per il cedimento di un’arteria polmonare – lo scrittore riuscirà a mettere per iscritto quello che rappresenta l’eredità più importante della sua mente: 1984, probabilmente il romanzo inglese più famoso del XX secolo. La visione distopica di Orwell fu profondamente legata alla moralità politica dell’autore ad al tempo in cui fu scritta, gli anni del dopoguerra dell’Europa occidentale – basti ricordare che il titolo infine adottato, 1984 appunto, nasceva dall’inversione delle ultime due cifre dell’anno della sua stesura, il 1948. I suoi temi però (la minaccia dello stato totalizzante, la censura e la manipolazione del linguaggio) continuano ancora a risuonare profeticamente, come spari non così lontani, nel presente democratico.
Al termine della terza guerra mondiale, la Terra è divisa in tre grandi potenze in perenne guerra tra loro, Oceania, Eurasia ed Estasia. In Oceania, Londra è la sede dei vari ministeri: il ministero della Pace (che presiede alla Guerra), quello dell’Amore (Sicurezza), della Verità (Propaganda) ed il ministero dell’Abbondanza (Economia). In questo scenario, Winston Smith – giornalista alle dipendenze del ministero della Verità ed incaricato di riscrivere gli articoli dei vecchi giornali in modo da favorire “storicamente” la politica statuale – decide di dichiarare la sua personale guerra al Partito ed al suo capo, il potente Grande Fratello, che tutto vede e tutto impone. La rivolta di Winston troverà ulteriore impeto dall’affiliazione con Julia, un’altra dissidente che intende utilizzare la sua sessualità rampante per sconfiggere la repressione del Partito. Scoperta però l’attività clandestina dalla psicopolizia, i due saranno sottoposti ai tormenti della Stanza 101, dove lo spietato O’Brian, torturandoli, gli descriverà il futuro come “uno stivale che schiaccia un volto umano – per sempre”. Al termine, ultimato il lavaggio del cervello e sottomesso, Winston attenderà la fine come “l’ultimo uomo in Europa” – titolo provvisorio che Orwell utilizzerà per il libro fino alla sostituzione con 1984.
Questa la trama del romanzo. Le idee geniali contenute in esso sono però in realtà tante altre: slogan come “il grande fratello ti guarda”, “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù” e “l’ignoranza è forza”; concetti come il “Bipensiero” e la “Neolingua” (qualcuno ha nominato la Boldrini?, ndr); così come personaggi del calibro dei “prolet”, la “psicopolizia” o “Goldstein”, sono diventati elementi d’uso comune nel linguaggio odierno, facendo di Orwell una sorta di Santone laico.
Ma oggi, al di là dell’indubbia importanza letteraria dell’autore, così come del libro stesso, per quale motivo leggere 1984?
Ovviamente è importante contentestualizzare un’opera come quella di Orwell, che come già detto deve molto al momento storico in cui fu ideata. Deve far riflettere però che molte, quasi tutte, le “predizioni” che Orwell inserì nel suo lavoro si siano avverate e continuino ad avverarsi proprio oggi, sotto i nostri occhi: in un momento storico cioè in cui alla “dittatura della forza”, si è sostituita la “dittatura del sorriso”. In altre parole, è bene tener presente che nonostante – e forse proprio a riprova di quanto ci venga continuamente propinato dai media tradizionali e non – oggi come allora viviamo un totalitarismo, non più di carattere nazionale ma mondiale.
Potrebbe essere interessante a tal proposito citare l’autore di un’altra opera distopica, assimilabile con le dovute proporzioni al capolavoro di Orwell. Stiamo parlando de La mano di gloria, del gruppo musicale genovese Ianva. In un intervista rilasciata dal cantante Mercy all’uscita dell’album – seguito poi da una trilogia di libri – il mastermind della band così spiegava questo concetto: “Io chiedo quale totalitarismo, anche il più brutale, è giunto al punto di negare a un paese ‘indebitato’ come la Grecia, la fornitura agli ospedali di farmaci antitumorali. Ha pensato di privatizzare persino i paesaggi o il patrimonio artistico. Ha sottoposto ad un regime di usura, degno dei peggiori cravattari da bassofondo, intere popolazioni al punto che c’è chi si inguaia con gli usurai veri, magari indirizzato dalle stesse banche, per poter pagare le tasse. Che costringe anziani a lavori usuranti e che, venute meno le forze, li scarica a casa senza pensione e senza stipendio in perfetti termini di legge. Che accusa di anti-democrazia tutto l’altro da sé, ma poi avverte che le sole vere elezioni che contano le fanno i mercati”.
Per quanto ci riguarda, quindi, il libro si inserisce perfettamente in quel “quadro” di riferimenti culturali, letterari e non – insieme a tanti altri come Arancia Meccanica o Brazil, in campo cinematografico, oppure Fight Club e Il mondo nuovo di Huxley, in quello narrativo – fondamentali oggi più che mai per tutti coloro che non intendano piegarsi di fronte alla massificazione ed alla globalizzazione dei valori e delle idee. Per poter insomma ri-scoprire e ri-generare l’armatura di quell’unico anticorpo a questo “male moderno”, e che risponde al nome di ribelle, l’uomo “sano” che speriamo non rimanga mai ultimo in Europa.
Davide Trovato