Home » Artigianato italiano: una realtà destinata a scomparire?

Artigianato italiano: una realtà destinata a scomparire?

by La Redazione
1 commento

artigianatoRoma, 1 mag – Nel capolavoro di Alan Moore noto come “Watchmen”, uno dei protagonisti, all’atto di girare un porno gay con due ragazzini reclutati per la bisogna, asserisce testualmente di non essere gay, ma di divertirsi a rifarsi la bocca in questo modo in quanto “nulla è meglio di una donna dopo un anno di maschio sudato fra le lenzuola”.

Stessa cosa, più modestamente, vale per lo scrivente e la sua attitudine al fumo di toscano, che ogni tanto necessita di essere rafforzata dal tradimento, ovverosia dalla fumata rilassata, aromatica, coinvolgente, asociale ed isolazionista della pipa, laddove il toscano è viceversa cameratesco, popolano, contadino, italico, conviviale. Fumando dal mio ultimo acquisto, una pipa artigianale realizzata da un amico, sono rimasto per la prima volta stupito dalla bellezza e dalla precisione manuale che richiede questo tipo di lavorazioni.

Alzando la testa, ho notato quanta semplice bellezza mi circondava nella casa dei miei genitori, con i mobili costruiti da mio nonno e dal padre di lui, con il letto di quando ero piccolo costruito da mio padre, persino con la cucina tradizionale di mia madre. Questa è l’Italia, e gli italiani che nei millenni hanno lavorato oro e ferro, scolpito marmo, elevato chiese e palazzi, in altre parole con le mani hanno messo in forma l’universo e regalato all’Europa la sconcertante bellezza senza la quale essa non solo non sarebbe degna di essere vissuta, ma non esisterebbe nemmeno.

Guardandomi intorno capisco che entro al massimo una cinquantina di anni questa capacità di plasmare il creato sarà perduta, e con essa l’anima profonda degli italiani, che fin dai tempi di Roma costruivano si templi, ma anche strade ed acquedotti laddove i tanto celebrati greci andavano al tempio seguendo tortuose mulattiere, ed i tanto potenti imperi asiatici nemmeno si degnavano di questo.

Competenze d’artigianato che si trasmettevano di padre in figlio, o di madre in figlia a seconda dei casi, ed in barba alla stupidissima idea femminista per cui prima di un certo periodo le donne non avessero un ruolo sociale ben definito a parte sfornare figli. Lavori socialmente integrati e solitamente ben retribuiti che scompaiono nel nome del “pezzo di carta”, dell’idea per cui un figlio che sa costruire una splendida pipa è un disonore, mentre un figlio che ha una laurea in lettere moderne indirizzo giornalismo, ergo non si prende nemmeno la briga di studiare il latino ed il greco, viceversa è un orgoglio.

Anche se poi finisce a fare lavori inutili nelle “risorse umane” o peggio ancora a fare veramente…il giornalista.

Nel 2001 Lant Pritchett, ex funzionario della Banca Mondiale, stese una ricerca dal significativo titolo “Dove è andata a finire l’istruzione?” dove, analizzando decine di nazioni in via di sviluppo, dimostra senza tema di smentita che l’impatto dell’aumento del numero di laureati sulla produttività dal 1960 al 1987 è stato molto relativo, ed in alcuni casi nullo.

Ci sono poi casi eclatanti come la Svizzera, una delle economie industriali più potenti del mondo ed al contempo la più bassa quota di immatricolati all’università del mondo, all’epoca ovviamente dello studio in esame, intorno al 15% della popolazione attiva.

Il motivo è banale: la stragrande maggioranza di quello che si studia in università ha un impatto pressoché nullo sulla produttività. Il che ovviamente non vuol dire che bisognerebbe chiudere tutte le facoltà economicamente (tutte a parte chimica, ingegneria, informatica e poche altre) inutili domani mattina, perché il motivo per cui qualcuno decide di studiare filosofia o lettere antiche o filologia normanna non è un motivo di carattere economico, e non per questo, a meno di voler essere marxisti nell’anima, bisogna disprezzarlo.

Vuol dire però iniziare a porsi delle domande scomode, che purtroppo richiedono delle risposte altrettanto scomode, come l’unico ministro serio dell’istruzione che l’Italia abbia mai avuto, quel Giovanni Gentile che in merito all’università ebbe il coraggio di dire: “Non si deve trovare posto a tutti. La riforma tende proprio a questo, a ridurre la popolazione scolastica”.

A costo di sembrare sgradevoli, bisognerà prima o poi farsi la domanda giusta e cioè: abbiamo veramente bisogno di 250mila avvocati? Di 5mila nuovi laureati in psicologia all’anno? Di un numero imprecisato di “gestori di risorse umane”, di “scienziati della politica”, di “sociologi”, di “economisti”, di “criminologi”?

La risposta è una sola: no. Non ci servono miliardi di laureati destinati a fare la fame, il cui unico scopo è permettere alle oscene baronie universitarie di ingrassare e spartirsi favori, poltrone e privilegi con le camarille locali e nazionali dei partiti, dei sindacati.

Abbiamo bisogno viceversa di operai ed artigiani, scienziati e filosofi, professionisti e contadini, imprenditori e produttori di ogni tipo.

Abbiamo bisogno di tornare ad essere italiani, e questo implica privilegiare la bellezza rispetto al “pezzo di carta”, nella stragrande maggioranza dei casi assolutamente inutile.

Matteo Rovatti

You may also like

1 commento

sevem80 2 Maggio 2015 - 3:07

Analisi pienamente condivisibile. Ridare la giusta importanza alle scuole professionali, legate all’artigianato, ai vecchi mestieri. Riscoprire la bellezza di saper creare. Grazie sig Rovatti.

Reply

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati