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Quando il progresso diventa l’anticamera dell’inferno

by Giovanni Damiano
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Senza sapere genealogico qualsiasi analisi del presente è un esercizio vacuo. Ad esempio, per comprendere alcune tendenze contemporanee, come la cancel culture, credo sia essenziale esaminarne il retroterra genealogico; impresa di per sé già improba, e sicuramente impossibile da realizzare in questa occasione. Pertanto, circoscriverò la ricerca a pochi accenni alla storia dell’utopia, per di più limitatamente al suo «secolo d’oro» (Alberto Andreatta), vale a dire il Settecento. Il perché della scelta dell’utopia come tema, e il suo collegamento con la tendenza indicata sopra, si chiarirà nel corso dello scritto. Valga, in ogni caso, come premessa, la distinzione tra l’utopica piccola porta di cui parlava Walter Benjamin, indispensabile per non appiattirsi sull’esistente, e l’utopia come fanatismo costruttivista, come ingegneria sociale, che è l’oggetto esclusivo della mia indagine.

L’ansia del futuro (e di progresso)

Le utopie pre-settecentesche, a partire da quella di Tommaso Moro, a dispetto del nome, più che lo spazio negavano il tempo. Erano acronie. E negando il tempo negavano la storia. Al contrario le utopie settecentesche guadagnano la dimensione temporale, e quindi acquistano profondità storica, ma proiettandola per intero verso il futuro, così da intrecciarla indissolubilmente con «il quadro ideologico della filosofia del progresso» (ancora Andreatta). Si tratta di quel fenomeno, verificatosi appunto in pieno Settecento, che Reinhart Koselleck chiama «l’irruzione del futuro nell’utopia», ed anche «la temporalizzazione dell’utopia» (Il vocabolario della modernità, il Mulino 2009, p. 133). Insomma, utopia, futurocentrismo e progresso finiscono per comporre un unico orizzonte dottrinario.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di luglio 2021

A ciò va poi aggiunto un ulteriore elemento, cioè quella «rivolta contro l’etnocentrismo», di cui parla René Girard nel suo La pietra dello scandalo (Adelphi 2004, pp. 12-13), che è una «invenzione dell’Occidente», in quanto frutto di una «passione per l’autocritica» esistente appunto solo in Occidente, ovvero presso coloro che «sono stati influenzati» dal cristianesimo (anche se tale rivolta non casualmente «ha prodotto i suoi massimi capolavori nel XVIII secolo»), e il cui fine è spingerci a condannare quello che siamo e a trattarci come il peggior nemico di noi stessi. In pratica, l’Occidente come unico caso al mondo di civiltà che in nome del progresso dilania se stessa.

Ingegneria sociale

Analizzando adesso, per quanto assai schematicamente, le più rilevanti caratteristiche del pensiero utopista, emerge subito, come motivazione principale, la contestazione dello stato di cose presente, e quindi l’avvertita necessità di costruire un mondo radicalmente alternativo, di solito ritenuto capace di risanare completamente i guasti, le ingiustizie e gli errori dell’epoca. L’utopia come risposta a una situazione di crisi ritenuta irrisolvibile e a una condizione pensata come irriformabile.

Da qui, la necessità di una vera e propria rifondazione «globale» della società, in grado di dar vita a un modello completamente nuovo, a un mai-visto-prima, ovviamente di gran lunga migliore di qualsiasi organizzazione sociopolitica concretamente esistita nella storia, perché appunto perfetto, senza possibili crepe, immune da ogni tralignamento. Da qui, ancora, l’inevitabile fanatismo dell’utopista, completamente prigioniero dei suoi fini, da realizzare a ogni costo, in quanto nulla va lasciato d’intentato nella costruzione di un mondo perfetto. L’utopista come impressionante incarnazione di quell’etica della convinzione di cui parlava Max Weber.

Ecco perché Girolamo Imbruglia nel suo Utopia (Carocci 2021, p. 53) mette giustamente in risalto un aspetto davvero decisivo, quando scrive che «con il suo carattere di sistema l’utopia cancellava il disordine della storia», per poi aggiungere che «il mondo utopista rende stabili le istituzioni ed esclude il rischio e perfino l’idea della crisi» (ivi, p. 62). È uno snodo del quale non è possibile sottacere o minimizzare l’importanza. In breve, l’utopia pretende di eliminare la complessità e la contraddittorietà del reale, presentandone una immagine impoverita e univoca, spegnendo ogni voce dissonante e sradicando, al contempo, ogni possibile fattore «turbativo» e conflittuale, in nome di…

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