Roma, 23 mag – Con la pandemia poteva dirsi finita l’era dell’austerità? Certo che no. L’ipotesi non è mai stata contemplata a Bruxelles. E così l’Unione Europea, la montagna burocratica che ha partorito l’inutile topolino del Recovery Fund, annuncia che dal 2023 il Patto di Stabilità farà ritorno sulla scena.
Bentornato (ma anche no) Patto di stabilità
Ad annunciarlo il vice presidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis. Il vero dominus delle politiche economiche comunitarie, piazzato dalla Von der Leyen a fare più o meno da balia a Gentiloni. Già primo ministro della Lettonia, dove ha potuto sperimentare – dal 2009 al 2014 – le stesse politiche che intende ripristinare appena possibile su scala continentale. Risultati conseguiti in tre numeri: la disoccupazione si è dimezzata, fondamentalmente grazie al crollo della popolazione (calata di oltre l’8%), mentre il suo partito è calato dal 30 a meno del 7% dei consensi. Se ha funzionato così bene a Riga, perché non replicare in tutta Europa?
“La politica fiscale dovrebbe rimanere favorevole sia quest’anno che il prossimo”, ha spiegato. Due anni (tre, con il 2020) di giubileo, insomma. Non oltre, però: “Possiamo confermare il nostro approccio per cui manterremo la clausola di salvaguardia generale attiva nel 2022 e non più a partire dal 2023”. Da qui a una ventina di mesi, insomma, il Patto di stabilità tornerà ad essere la religione del libro della quale Bruxelles è pontefice massimo.
Il Recovery Fund come una clava
Il motivo del ritorno alle origini è presto detto: “Tutte le nazioni europee dovrebbero ritornare ai livelli pre-crisi entro la fine del 2022”. Questo almeno stando alle più aggiornate previsioni (quelle del bollettino di primavera), secondo le quali ad esempio l’Italia recupererà appieno il proprio potenziale da qui al termine dell’anno prossimo. Un potenziale che, secondo l’Ue, significa mantenere la disoccupazione in doppia cifra dato che nel 2019 si attestava al 10%. Farebbe sorridere questo timore di surriscaldamento della nostra economia che arriva da Bruxelles, non fosse che va etichettato con un unico aggettivo: criminale. E siamo stati educati.
Certo, il Patto di stabilità non sarà identico a quello che abbiamo potuto apprezzare in passato. La sua riforma è all’ordine del giorno. Non quella, però, della logica che lo informa: rimarrà sempre quella di aggredire i livelli di indebitamento (considerati) eccessivi, imponendo – direttamente o indirettamente – misure lacrime e sangue per conseguire gli obiettivi. Utilizzando allo scopo anche l’ultimo ritrovato: il Recovery Fund. Quale miglior strumento per imporre vincoli e condizioni, alla luce della possibilità di sospendere i pagamenti (con i nostri soldi) per progetti già avviati? E quale miglior viatico se non quello di un moloch burocratico che contribuirà alla crescita in misura risibile, nel frattempo commissariandoci de facto?
Filippo Burla