Roma, 3 mag – Ieri pomeriggio, dopo il pareggio tra Sassuolo e Atalanta, il sogno di tutti i tifosi nerazzurri è diventato realtà: l’Inter ha conquistato il suo 19esimo Scudetto. Una vittoria che vale doppio, e Antonio Conte lo ha rimarcato con orgoglio: «Abbiamo fatto cadere un regno che durava da nove anni». Il regno, ovviamente, era quello della Juventus, che dal 2011-2012 ha imposto in Italia un dominio assoluto, che resterà comunque negli annali del calcio. Ad aprire quel ciclo era stato proprio lui, Antonio da Lecce, che poi se ne andò da Torino sbattendo la porta. È ritornato diversi anni dopo per chiudere il cerchio. Gli è riuscito. Ma lo Scudetto dell’Inter, quest’«opera d’arte» (come l’ha definita lo stesso Conte), è figlio di tantissimi fattori. Vediamo quali.
Lo Scudetto dell’Inter in 10 mosse
1. Dalla Cina con furore. Il 19esimo Scudetto dell’Inter porta la firma indelebile di Suning. Il colosso della famiglia Zhang, infatti, ha rilevato le quote di maggioranza della società nerazzurra nel 2016, quando la Beneamata era una squadra che lottava per accedere alla Champions League, non riuscendoci mai. Dopo un turbolento periodo di assestamento, gli Zhang hanno fatto le scelte giuste e hanno mantenuto le promesse: hanno affidato la dirigenza a persone capaci e hanno speso la bellezza di 700 milioni di euro per costruire un’Inter da Scudetto. Niente di paragonabile, insomma, alla scriteriata gestione Thohir, fatta di mezze figure e braccino corto. Ora gli Zhang sono finiti nel tritacarne mediatico per le difficoltà economiche di Suning (causate dalla pandemia e accresciute dai diktat del Partito comunista cinese). Comunque vada a finire, la prima proprietà straniera a vincere il titolo in Italia ha compiuto un piccolo miracolo: in soli cinque anni ha riportato i nerazzurri alla vittoria. Chapeau.
2. Nel segno di Beppe. A edificare il regno juventino era stato soprattutto Giuseppe Marotta. Dirigente con pochi eguali, Andrea Agnelli si era fidato ciecamente di lui. E ha fatto bene. Non è un caso che la monarchia bianconera inizi a vacillare quando Marotta viene fatto fuori da Fabio Paratici, il discepolo che voleva superare il maestro. Appena annunciate le sue dimissioni, sul cellulare di Beppe arriva un messaggio: è quello di Steven Zhang, il giovanissimo presidente dell’Inter. Per vincere servono i migliori, e Marotta è l’uomo giusto al posto giusto. La sua gestione inizia con il botto: neanche insediato, è subito chiamato a gestire la grana Icardi. Beppe ha le idee chiare: basta con i capricci, gli ammutinamenti, i gossip e le pagliacciate da «pazza Inter». La rivoluzione è immediata: Icardi degradato da capitano a esubero, senza contare la punizione esemplare per Nainggolan, altra «mela marcia» dello spogliatoio. E poi la sua scommessa più grande: Luciano Spalletti è bravo, molto bravo, ma per vincere serve il migliore. Marotta chiede e ottiene l’ingaggio di Antonio Conte. L’obiettivo era di vincere lo Scudetto in tre anni. Beppe ci è riuscito in due. Fenomenale.
3. Il mio miglior nemico. Il 90 per cento dei tifosi interisti ha storto la bocca: vanno bene tutti, ma non Antonio Conte, capitano e bandiera dei rivali di sempre. Ma Antonio da Lecce lo ha sempre detto: «Venire all’Inter era la scelta più difficile. E a me piacciono le grandi sfide». Vincente nato, il 19esimo Scudetto dell’Inter è il suo capolavoro. Ha preso una squadra da quarto posto e l’ha portata a conquistare il titolo in soli due anni. Tra sfuriate, smorfie e frecciate, certo, ma a volte gli schiaffoni fanno bene. Nel momento più complicato della stagione, con la catastrofica eliminazione in Champions e le voci sui problemi di Suning, Conte e Marotta hanno fatto quadrato, impermeabilizzando lo spogliatoio e facendo da parafulmini umani. Antonio ha compattato la squadra, l’ha incalzata, sollecitata e martellata. «Questo è l’unico modo che conosco per vincere», ha dichiarato, «e per rimanere nella storia di un club, devi vincere». Missione compiuta.
4. LuLa piena. È la seconda coppia d’attaccanti più prolifica d’Europa. Stiamo parlando del tandem formato da Romelu Lukaku e Lautaro Martínez. Finora hanno realizzato in due la bellezza di 36 gol in campionato. Un’enormità. Lukaku è stato un altro capolavoro di Conte: cercato, voluto, bramato e, infine, ottenuto. Anche se tutti dicevano che 75 milioni di euro erano troppi per un «pippone» (così lo ha definito sarcasticamente Conte, perculando i tanti ingenerosi critici del gigante di Anversa). Lautaro è invece un’intuizione di Piero Ausilio, l’uomo mercato dei nerazzurri. Nei due anni di Conte, il «toro» ha vissuto una crescita esponenziale, tanto da attirare su di sé le brame di mezza Europa (Barcellona su tutti). Presi singolarmente, sono grandi giocatori. Ma insieme sono una corazzata del gol.
5. L’erede di Nicola Berti. Anche lui, appena arrivato, aveva fatto discutere: «Dai, 45 milioni di euro sono troppi per un ragazzino che viene da Cagliari». Ebbene, quel ragazzino è oggi diventato uno dei più grandi centrocampisti d’Europa, nonché perno della Nazionale di Roberto Mancini. Stiamo parlando di Nicolò Barella, l’instancabile motorino della mediana nerazzurra. Mezzala totale, forte sia in interdizione che in impostazione, Nicolò (interista fin da bambino) ha subito ricordato a tutti una grande bandiera del passato: Nicolino Berti. Da Nicola a Nicolò, il paragone non era azzardato. «Sì, Barella è il mio erede», ha confermato Berti. Capitan futuro.
6. Asso di Bastoni. A proposito di mugugni e scommesse vinte. In tanti, in troppi, avevano detto «31 milioni per un 18enne sono una follia». Eppure Alessandro Bastoni ha fatto rimangiare tutto ai suoi detrattori. Dopo il prestito a Parma, torna ad Appiano Gentile con le valigie già pronte, destinato ad altri lidi. Ma Conte si oppone: «Alex da qui non si muove». A soli 20 anni d’età, il ragazzo di Casalmaggiore (anche lui interista da sempre) riesce a mandare in panchina gente come Diego Godín, il veterano di mille battaglie e mille vittorie. Insieme a Stefan de Vrij e Milan Škriniar ha eretto un muro invalicabile. Piede educato, è un regista aggiunto. Basta rivedersi l’assist per Barella in Inter-Juventus. Predestinato.
7. Marrakech Express. Era dai tempi di Maicon che la Beneamata non aveva un esterno destro di questa caratura. Veloce, tecnico, a tratti imprendibile, c’è molto di Achraf Hakimi in questo Scudetto dell’Inter. I tifosi nerazzurri avevano imparato a conoscere la sua forza già l’anno scorso: nella disgraziata trasferta di Dortmund, il laterale marocchino aveva rifilato una dolorosa doppietta alla banda di Conte. Quest’anno, però, Hakimi si è trasferito a Milano, sponda nerazzurra. E i risultati sono stati 7 gol e 6 assist. Non male per un terzino.
8. Il figliol prodigo. I responsabili della comunicazione interista lo avevano presentato come un direttore d’orchestra alla Scala del calcio. Ma Christian Eriksen sembrava davvero l’unica nota stonata di questa Inter targata Conte. Ai margini del progetto, vicino al siluramento, il profeta di Middelfart cambia il suo destino in una gelida notte di gennaio. Nel derby di Coppa Italia, una sua punizione al bacio decide la sfida contro i cugini rossoneri. Da allora Eriksen entrerà in pianta stabile nell’undici titolare, con lanci millimetrici, tocchi di prima e anche qualche calcione rifilato agli stinchi degli avversari. Il gol che ha regalato lo Scudetto all’Inter lo ha siglato proprio lui. Redento.
9. Il gregario. Ogni squadra di Conte ha sempre trovato la sua forza anche nelle seconde linee. Da «Giaccherinho» a Graziano Pellè, sono tanti i veterani che hanno sublimato il calcio verace di Antonio da Lecce. E anche nell’Inter la panchina non ha tradito il mister: da Ranocchia a Gagliardini, da D’Ambrosio ad Alexis Sánchez, ognuno di loro ha fornito un contributo importante, a tratti decisivo. Ma il volto gregario di quest’anno non può che essere quello di Matteo Darmian. Arrivato in punta di piedi, nella diffidenza dei tifosi nerazzurri, il terzino ex Manchester United si è sempre fatto trovare pronto. Segnando anche gol pesantissimi, come quelli contro Cagliari e Hellas Verona. Cuore e muscoli al servizio della squadra.
10. Il metronomo di Zagabria. La metamorfosi della «pazza Inter» nell’Inter scudettata può essere riassunta in un volto: quello di Marcelo Brozović. Indisciplinato, anarchico e scostante, grazie alla cura Spalletti è diventato Epic Brozo. Conte lo ha confermato alla cabina di regia, affidandogli le chiavi del centrocampo. Lui non ha tradito le attese: abile nel dettare i tempi, prezioso a schermare la difesa, è il giocatore che ha macinato più chilometri in Serie A. È la metamorfosi definitiva che è valsa uno Scudetto.
Valerio Benedetti