Roma, 7 giu – Le vicende che riguardano l’Ex Ilva rappresentano la lampante dimostrazione del fallimento del liberismo nel settore siderurgico. Prima la famiglia Riva e poi la multinazionale ArcelorMittal hanno scaricato su tutta la collettività i costi della loro mala gestio. Gli ultimi arrivati, dopo le mirabolanti promesse inziali, non hanno fatto altro che parlare di esuberi e cassa integrazione. Alcuni sindacalisti sospettano già da tempo che gli indiani vogliano abbandonare gli stabilimenti italiani dopo averli spolpati. Nessuno, dunque, si stupisce per i 3.200 licenziamenti previsti dal nuovo piano industriale. I patti, però, non erano questi.
Un piano industriale lacrime e sangue
A marzo, dopo la nota disputa legale, l’intesa sull’Ex Ilva prevedeva un piano industriale molto diverso. L’accordo proiettato sul 2025 prevedeva una produzione di 8 milioni di tonnellate, tra forno elettrico e altoforno, e 10.700 occupati. Inoltre, sarebbe stato rifatto l’altoforno 5 (il più grande d’Europa). Lo Stato entrava anche nella compagine azionaria divenendo a tutti gli effetti il garante di quest’operazione. Passano pochi mesi e la pandemia diventa il pretesto per cambiare le carte in tavola. Il 25 maggio scorso si svolge un incontro tra azienda, governo e sindacati. Ebbene già in quell’occasione l’amministratore delegato Lucia Morselli disse che “ogni giorno l’azienda riceve mail di clienti che sospendono o rinviano gli ordini di lavoro”. Insomma ArcelorMittal metteva le mani avanti.
E ora veniamo ai giorni nostri. Nell’ultimo piano presentato al governo gli occupati nel 2025 saranno 7500. Il che vuol dire che ci sono 3200 licenziamenti diretti rispetto all’organico di gruppo attuale. Se poi a quest’ultimi si aggiungono i circa 1800 (di Ex Ilva in amministrazione straordinaria) si arriva a 5mila. Calerà anche la produzione: non più 8 milioni ma 6 milioni di tonnellate utilizzando solo tre altoforni: Afo1, Afo2 e Afo4. Il rifacimento dell’altoforno 5 rimarrà una chimera. La sensazione è che la dirigenza voglia far fallire l’azienda.
Agli indiani, però, la faccia tosta non manca: la società chiede pure 600 milioni di prestito con garanzia Sace, 200 milioni di contributo a fondo perduto, più altre risorse da quanto l’amministrazione straordinaria ha ricevuto dalla transazione dei Riva (proprietari dell’Ex Ilva). Il totale delle richieste di ArcelorMittal ammonta a 2 miliardi. Come dire capitalisti con il capitale altrui.
La reazione dei sindacati e del governo
E veniamo ora ai rappresentanti dei lavoratori. Era facile aspettarsi una levata di scudi da parte dei sindacati e così è stato. Parole dure da parte di Rocco Palombella, segretario generale Uilm, che attacca ArcelorMittal “per aver presentato un piano industriale che, prevede 4.000 esuberi, ritardi negli investimenti ambientali, nell’ammodernamento e manutenzione degli impianti. Se venisse confermato sarebbe inaccettabile”. Anche il segretario della Fim-Cisl Marco Bentivogli si scaglia contro “ArcelorMittal che avrebbe fatto presente che lo scenario, rispetto all’accordo di marzo, è profondamente cambiato a causa del lockdown. Ottimo alibi per ritardare ancora la ripartenza dell’Afo5 e continuare a smantellare lo stabilimento e a non proseguire le opere ambientali”.
E veniamo ora alle prese di posizioni del governo. Secondo il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, intervenuto a Radio Anch’io su Rai Radio1 “l’ingresso dello Stato nella ex Ilva con Cdp è “quasi inevitabile”. “Non capiamo la profondità dei tagli- ha aggiunto Patuanelli – è inaccettabile. Se Mittal ha deciso di andarsene se ne vada ma si rispettano le clausole del contratto e le penali previste”. Inoltre, il ministro è convinto che serva un “piano strategico” per la filiera dell’acciaio. Verrebbe da dire: bella scoperta.
Crisi dell’acciaio: ecco perché dovrebbe intervenire lo stato
Ci stupisce, infatti, la passione con cui i grillini oggi difendono la siderurgia italiana. Infatti, i pentastellati, un tempo erano seguaci dei principi della decrescita felice: avrebbero preferito un bel giardino al posto di un altoforno.
Si può discutere all’infinito sull’impatto ambientale della siderurgia, ma dato che l’acciaio lo utilizziamo qualcuno deve produrlo. L’Italia è uno dei maggiori produttori di acciaio. La siderurgia, con circa 33 mila occupati, rappresenta il 2% dell’occupazione manifatturiera. L’80% della produzione avviene già con il sistema a forno elettrico, che è molto meno inquinante rispetto a quello a ciclo continuo con altoforno.
Purtroppo già nell’ultimo semestre del 2019 l’Italia ha avuto un calo del 4,5% della produzione di acciaio rispetto allo stesso periodo del 2018, attestandosi a 15,4 milioni di tonnellate e uscendo dalla classifica dei primi dieci produttori mondiali, scendendo alla undicesima posizione. La pandemia, dunque, ha solo amplificato dei dati già allarmanti. Questo lo possiamo vedere se compariamo ciò che viene prodotto da noi rispetto alle altre nazioni europee. Secondo i dati forniti dall’agenzia stampa Agi “l’Italia ha subito maggiormente l’impatto del lockdown. A marzo la produzione è scesa del 40,2%, una diminuzione doppia rispetto al -20,9% della Germania, al -13,2% della Francia e al -14% della Spagna. In generale, l’Ue nel mese di marzo ha visto un calo della produzione tendenziale del 20,4% a 12 milioni di tonnellate”.
La siderurgia italiana, un tempo vanto della nostra industria, si sta arenando. Ci aspettiamo ora che il ministro Patuaelli non solo passi dalle parole ai fatti, ma che riesca anche ad invertire il trend negativo della siderurgia. Perché passata la pandemia la domanda di acciaio tornerà a crescere. C’è dunque bisogno di un piano strategico che sappia coniugare lo sviluppo economico con la sostenibilità ambientale e la difesa della salute. Speriamo che il governo sia all’altezza di questo arduo compito.
Salvatore Recupero