Roma, 6 giu – La leggenda narra che, una fredda notte di quasi duemila anni fa, Apollonio, vescovo di Brescia, si trovò privo degli oggetti liturgici per celebrare la messa davanti ai cittadini che, abbandonati gli dèi pagani, volevano convertirsi al cristianesimo. Dopo aver pregato intensamente apparvero una tovaglia di lino, le ostie, il calice e quattro ceri, il tutto portato da Faustino e Giovita, due bresciani che Apollonio aveva da poco convertito e che si stavano rendendo protagonisti di una lunga serie di miracoli. Apollonio, aiutato da Faustino e Giovita, poté così svolgere la funzione e convertire tutti i presenti, radunati sulle alture fuori Brescia per sfuggire alle ire persecutorie dell’imperatore Adriano.
La storia della vita dei santi Faustino e Giovita che la storia ci ha tramandato è assai complessa e ricca di vicende perlopiù fantasiose, benché iconiche della tradizione cattolica bresciana legata ai due santi patroni, come il miracolo della messa di Sant’Apollonio, ampiamente narrato e raffigurato.
I martiri Faustino e Giovita
Dal punto di vista puramente storico, dobbiamo prendere atto di tre fatti: il primo è che Faustino e Giovita sono certamente esistiti, il secondo è che non si conosce nulla di loro, il terzo è che sono morti da martiri durante l’Impero romano, cosa che sarebbe troppo audace negare. Neppure i nomi aiutano: Faustinus, appellativo generico assai diffuso tra i patrizi romani, e Iovita, al contrario estremamente raro, praticamente unico nel suo genere. La tradizione narra che siano stati martirizzati sotto l’Impero di Adriano, il che è verosimile, ma non altrimenti dimostrabile, né smentibile. Possiamo quindi ammettere che sotto Adriano, tra il 120 e il 140 d.C. circa, nella tranquilla cittadina di Brixia, due uomini di nome Faustino e Giovita si siano rifiutati di sacrificare agli dèi in quanto cristiani, e per questo uccisi.
Le origini della chiesa bresciana sono un tema storico impenetrabile, ma è verosimile che Faustino e Giovita siano stati i primi o tra i primi diffusori del Vangelo a Brescia, all’inizio del II secolo. A questa ipotesi viene in aiuto la professione di Faustino e Giovita che la storia e la tradizione ci hanno tramandato: Faustino infatti è sempre rappresentato come prete, in abito sacerdotale, mentre Giovita come diacono, cioè il responsabile dell’amministrazione dei beni della comunità. Possiamo dunque pensare che Faustino fosse il presbitero a capo della neonata comunità cristiana di Brescia, forse fondata proprio da lui, con Giovita come diacono assistente.
Ma è un fatto ancora più dirompente, ancora più fondante del loro culto come patroni, ad elevarli a simboli identitari della città e dei valori della sua intera comunità. Arriviamo così alla prima metà del Quattrocento. L’età dei liberi Comuni è terminata da più cento anni e adesso sono le Signorie che cercano di contendersi l’Italia, strappandosi l’un l’altra città, campagne e valli, in un continuo mutamento di confini e di poteri. Si tratta di forze politiche locali mediamente forti, con un’indipendenza molto labile in quanto continuamente soggetti all’influenza dell’impero germanico e del papato, con frequenti cambi di alleanze a seconda dei rispettivi interessi.
L’assedio di Brescia
Tra la Repubblica di Venezia e Filippo Maria Visconti, signore di Milano, c’è altissima tensione. Venezia, dopo centinaia di anni di governo limitato alle coste dell’Adriatico, si sta espandendo nell’entroterra sottraendo terreni a tutte le Signorie. Nel 1427 Venezia vince contro Milano la battaglia di Maclodio, cui segue una pace che sancisce l’appartenenza di Brescia e Bergamo a Venezia. Come al solito, la pace dura poco e Filippo Maria Visconti incarica il capitano di ventura Niccolò Piccinino di riconquistare le terre perdute. Dopo aver invaso la provincia, dalla quale la maggior parte della popolazione era fuggita riparandosi dentro la città murata, nel settembre 1438 il generale stringe d’assedio Brescia con un esercito di 25mila uomini e 80 pezzi d’artiglieria. Le terre di Urago, Concesio e Collebeato vengono occupate, l’acquedotto di Mompiano viene tagliato e il corso del Garza viene deviato.
L’assedio è estremamente feroce. Cristoforo Soldo, politico e cronista bresciano testimone oculare dei fatti, scrive con macabro verismo i dettagli dei numerosi assalti del nemico alle mura est della città, che si intensificano tra la fine di novembre e i primi di dicembre, trovando sempre e comunque una strenua resistenza dei bresciani. Il 13 dicembre, in particolare, i milanesi attaccano le mura orientali in tre punti distinti: canton Mombello, porta Torrelunga (l’attuale piazzale Arnaldo) e il Roverotto, una torricella di guardia lungo le mura tra porta Torrelunga e la Pusterla, dove il terreno si alza verso il colle Cidneo. Scrive Soldo: «Venuto lo giorno alli 13 decembrio, el dì de Sancta Lucia, a l’alba del giorno fu arivato la sua [di Nicolò Piccinino] gente d’armi da cavallo e se mise in belle battaglie […] et comezorno a dar tre battaglie a uno tratto: una a Mombello, l’altra alla Porta de Tor Longa, e l’altra al Ravarotto. […] La battaglia al Ravarotto fu aspera et dura; ma li nostri tutti quanti feceno dil galiardo a modo de lioni, de balestre, de lance, sempre a mane a mane, de schiopetti, de sassi, de bombarde, de boccali pieni di calcina, quali ne fece grande utilità. L’aria se oscuriva de tanti sassi lance et altre cose. Campani a martello, trombe, cridore era tanto che serave udito longe maraviglie. E durò la battaglia cossì dura da l’alba fin a sera».
La battaglia prosegue il giorno successivo, 14 dicembre 1438: «Voi haveresti veduto cinque cento elmetti com penachii a quello reparo dil Ravarotto e in la fossa. E comenzorno a intrar drento del muro, donde era forato, li fanti da piede, com li targoni (scudi) in brazo, et alchuni homini d’armi. A quella volta se poteva ben dir ch’eli fosseno drento; ma tosto furno reversati di fuora. Ma sapiati ben che tutti non ritorneteno di fora. […] Mi Christoforo Soldo, auctore di questa scrittura, vidi che se li inimici non havesseno habuto paura de esser taliati a pezzi, sariano intrati dentro per forza».
Faustino e Giovita nel mezzo della battaglia
È in questi frangenti che avviene un fatto miracoloso e inaspettato. In una lettera del 10 gennaio 1439, un mese dopo i fatti, il vicentino Nicola Colzé, vicario del podestà, scrive emozionato: «Molti poi, anche reputatissimi, riferirono di aver udito dai nemici che nel mezzo del conflitto furono veduti due personaggi coperti d’armi d’oro, ma con aspetto minaccioso e quasi divino spargere il terrore tra i nemici e rovesciarli dalle barriere, per cui taluni pensano che venendo meno le forze umane i chiarissimi Martiri e Patroni di questa città, vale a dire Faustino e Giovita abbiano voluto essi medesimi prendere il luogo ed il popolo sotto alla loro tutela».
Anche Lodovico Foscarini, governatore di Brescia, in una sua lettera del 1452, 14 anni dopo i fatti, ricorda: «La liberazione dal terribile assedio, quando furono visti dai nemici i Santi Patroni a proteggere la città, per cui il comandante Nicolò Piccinino perdette ogni speranza di impadronirsene e levò gli accampamenti».
Cosa sia veramente accaduto il 13 dicembre 1438 sugli spalti del Roverotto a Brescia, è difficile dirlo. Il fatto che sia Colzé, sia Foscarini, sia altre fonti sono concordi nell’attribuire al nemico il racconto della visione è indizio che, almeno in origine, si trattò di un espediente del Piccinino per nascondere le vere cause della sua sconfitta, ossia un assedio mal condotto, gravato da un’autorità molto labile del capitano di ventura sul suo esercito. È probabile che quel giorno Nicolò Piccinino, sperando di sfondare il Roverotto trovandosi davanti solo un piccolo gruppi di uomini sfiancati dall’assedio, si sia invece trovato davanti un manipolo di leoni, così furiosi nella battaglia da sembrare animati da ira divina. Da questo punto di vista, l’apparizione dei due patroni sarebbe la fioritura poetica della glorificazione dell’eroismo bresciano dimostrato quel giorno all’invasore. Sappiamo per certo che questi leoni esistettero veramente e di uno conosciamo pure il nome. Pandolfo Nassino, altro cronista bresciano testimone dei fatti, racconta di un certo Cabrino da Mairano: «Cabrì bombarder amazò lo dì de S. Lusia homini n. 19, quali erano armati al loco del Ravarotto de città de Bressa».
In realtà, il significato dell’evento miracoloso è ancora più profondo e non si può certo ridurre a una sorta di frottola ingigantita per convenienza. Réginald Grégoire, grande studioso dei meccanismi alla base della nascita delle figure dei santi, nel suo Manuale di agiologia (1987) specifica che «il patrocinio del santo [sull’autorità civile] corrisponde ad una tappa dello spirito cittadino e quindi appartiene ad una presa integrale di coscienza di una identità, non soltanto religiosa ed ecclesiale, ma anche politica e strutturale, sociale e amministrativa […], il santo è l’espressione di una consapevolezza collettiva».
È dunque l’autorità civile che investe sull’insperato evento miracoloso il quale, vero o presunto che sia, è l’elemento catalizzante di una rinnovata identità locale, di un ritrovato spirito di appartenenza all’interno di una comunità uscita certamente dilaniata dall’evento bellico. Partiti i nemici, tra i cadaveri dei defunti, le macerie fumanti e un’economia e sanità al lumicino, sono i santi Faustino e Giovita che smuovono l’immaginario collettivo verso la riscoperta del proprio essere bresciani. I due patroni e il mito della loro miracolosa apparizione al Roverotto diventano il nuovo punto di partenza su cui ricostruire lo spirito civico di un’intera comunità, due simboli sui quali converge un assenso unanime, tanto potente da ricucire tutte le ferite della guerra.
Nasce il mito di Brixia fidelis
Come è ovvio, dopo gli eventi del 1438 Venezia si innamora perdutamente di Brescia, città di confine da poco entrata nella Repubblica, il cui popolo, senza alcun aiuto e dall’interno delle mura assediate, era stato in grado di fermare e sconfiggere l’esercito milanese. Nasce il mito di Brixia Fidelis, città fedele alla Dominante, disposta a qualunque sacrificio in nome dell’onore e della più alta virtù: la lealtà.
Il nobile veneziano Francesco Barbaro, provveditore della Repubblica di stanza a Brescia durante l’assedio, scriverà in una sua lettera: «In quel tempo Brescia insegnò al genere umano che nulla vi è di più forte e prezioso della virtù che disprezza ogni pericolo e di niuna cosa si cura purché la libertà, la dignità, la fama e la gloria siano salve. […] Ma che occorre parlare di quegli uomini, quando abbiam veduto le matrone e le donzelle istesse munire le conquassate mura, soccorrere i difensori, offrire i petti alle ferite, e per la loro pudicizia e la comune libertà apprendere a morir strenuamente?»
Anche lo straordinario ruolo delle donne bresciane durante l’assedio, ribadito da più fonti, ha avuto la sua fioritura simbolica nella figura quasi mitica di Brigida Avogadro, una nobile bresciana dalla dubbia esistenza che pare seppe coordinare la difesa delle mura orientali della città durante gli assalti del Piccinino, brandendo una lancia e uno stendardo. Non è inverosimile che sotto il suo nome si nascondano le molte donne locali che affiancarono strenuamente i cittadini combattenti in quei difficili giorni, quei vari Cabrino da Mairano forse a loro volta nascosti sotto il nome dei santi Faustino e Giovita. Alla leggendaria Brigida Avogadro è oggi dedicata la via che da piazzale Arnaldo sale verso la Pusterla, fiancheggiando l’antico tratto orientale delle mura cittadine e il Roverotto, dove seicento anni fa si combatté l’assedio di Nicolò Piccinino.
Il miracolo al Roverotto ha un effetto talmente dirompente sulla comunità bresciana da eleggere i due martiri a unici e assoluti patroni della città, scalzando altri santi, soprattutto vescovi locali delle origini, che fino ad allora gli si erano affiancati, soprattutto sant’Apollonio e san Filastrio. Possiamo dire che a Brescia esplode la venerazione dei santi Faustino e Giovita, molto più che in passato, e il ruolo attribuito ai patroni durante l’assedio ha addirittura l’effetto di cambiare la loro tradizionale iconografia. Dalle vesti clericali con le quali erano sempre stati raffigurati in passato, i santi Faustino e Giovita diventano due forti uomini guerrieri vestiti con l’armatura del tempo, rappresentando molto meglio quell’ideale di santi protettori della città che scendono a fianco dei bresciani per combattere attivamente il nemico.
Faustino e Giovita riposano oggi dentro una preziosa arca seicentesca nel presbiterio della chiesa patronale di Brescia, a loro dedicata, oggetto di larghissima venerazione di tutti i fedeli, simbolo di sincera identità per tutti i bresciani.
Roberto Panchieri