Roma, 16 apr – Se si volesse assegnare un nome alla malattia dell’Occidente, lo si rinverrebbe nella splendida parola greca che dice il “voler-avere-di-più”: pleonexia. Platone la evoca a più riprese nei suoi dialoghi. Con la splendida immagine del “Fedro”, la pleonexia è la malattia dell’anima in cui il cavallo nero, quello della passione, ha preso il sopravvento sull’auriga della ragione e sul cavallo bianco. La pleonexia è la passione triste che ci porta a cedere al desiderio di voler avere sempre di più, per ciò stesso tradendo l’imperativo delfico “nulla di troppo” (meden agan).
È la passione materialistica per eccellenza, propria di chi vuole accumulare sempre più beni materiali, rinunciando alla spiritualità del sapere e della ricerca, dell’amore e della spiritualità. V’è un passaggio splendido nell’“Alcibiade Maggiore” in cui Platone declina il tema sul piano dell’amore:
– SOCRATE: Se uno ama il corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, ma una delle cose che gli appartengono.
– ALCIBIADE: Dici il vero.
– SOCRATE: Invece, ti ama solo chi ama la tua anima.
(Platone, “Alcibiade maggiore”, 131 c)
Il vero amore riguarda l’anima, non il corpo. Ha a che fare con l’immateriale. Il corpo e la materia, i beni e le ricchezze – argomenta Platone – non sono veri beni, dacché sono instabili e soggetti al mutamento incessante. Il consumismo, sconosciuto a Platone, rappresenta l’inveramento della sua analisi teorica. Nel consumismo prevale un’ontologia instabile, in cui gli enti sono concepiti ad hoc per essere consumati. Non li si può amare, se non come si ama il corpo che invecchia rapidamente.
Nel quadro ontostorico del consumismo, diremmo con Heidegger, siamo consumatori e consumati. Siamo schiavi della pleonexia, e ci illudiamo di possedere sempre di più proprio mentre siamo posseduti sempre di più dall’impianto tecnonichilista della crescita e dell’illimitata volontà di potenza mercatista.
Diego Fusaro