Roma, 11 feb – Lo dirò senza giri di parole: per me la Giornata del Ricordo andrebbe abolita. Insieme, ovviamente, alla Giornata della Memoria e a tutte le altre occasioni di rammemorazione collettiva calata dall’alto, artificiale, imposta. Si tratta di una proposta che potrà scioccare qualcuno: in fin dei conti il 10 febbraio rappresenta ormai da diversi anni l’occasione per portare alla luce tragedie lungamente negate, di cui molti non avevano nemmeno sentito parlare, che per decenni non sono comparse neanche nei libri di scuola. Per molte famiglie con parenti infoibati, questa data rappresenta un seppur misero risarcimento postumo. E per molti patrioti privi di legami di sangue con le vittime ma ancora legati a un’idea di destino collettivo, nella buona e nella cattiva sorte, il 10 febbraio è l’occasione per dimostrare che non tutti hanno dimenticato o, peggio, giustificato quei crimini, che l’odio di sé, lo spirito antinazionale, pur dominante nell’intellighenzia, non è una religione civile unanimemente accettata con passività da tutta la popolazione.
La partita dell’egemonia culturale
Sono tutti profondi motivi di riflessione ed è anche questo il motivo per cui ho atteso la conclusione della Giornata del Ricordo per esplicitare le mie perplessità, in modo da non offendere nessuno con quella che poteva sembrare una banale provocazione. Ma che invece nasce da una riflessione meditata, che è la seguente: la memoria collettiva non è modificabile per decreto. Occorre un lavoro in profondità, che ha a che fare con quella che Gramsci chiamava “l’egemonia culturale”. Dopo la Grande guerra, questo venne fatto con il culto dei caduti. Fu quella che George Mosse chiamò “la nazionalizzazione delle masse”. In quel caso, i nazionalisti vinsero la partita dell’egemonia e i socialisti la persero. Ma si trattava di un lavoro a caldo, su passioni, lutti, entusiasmi ben tangibili, che investiva di senso esperienze provate da masse ingenti di uomini. Era lo spirito del tempo che veniva plasmato in presa diretta.
Il culto della memoria che è alla base delle varie “giornate” dedicate è una mera imposizione del potere costituito, che avviene a distanza di decenni dai fatti “ricordati” (forse non tutti si…ricordano che le due “giornate” della Memoria e del Ricordo sono state istituite solamente nei primi anni Duemila) e che pretenderebbe di attivare a comando e burocraticamente meccanismi etici e identitari collettivi. Tant’è che quando “l’innesto di memoria” non funziona a dovere, si pensa bene di ricorrere alla repressione poliziesca, nel caso della Giornata della Memoria, o all’accettazione passiva del negazionismo, nel caso della più “sfigata” Giornata del Ricordo. In entrambi i casi, tuttavia, l’inutilità delle ricorrenza è manifesta, perché una memoria forzata non è vera memoria, e un ricordo che diventa l’occasione per offendere i ricordati è contraddittorio.
L’insensatezza del 27 gennaio
Il triste teatrino del 10 febbraio, con l’Anpi che viene addirittura chiamata nelle sedi istituzionali per autogiustificarsi di crimini commessi dai partigiani, testimonia a dovere come non basti una legge per scalzare un’egemonia storiografica sedimentata. Ma dirò di più: quando il 10 febbraio non è occasione di contesa politica, e ciò accade raramente, è pure peggio. Lo scontro politico esplicita almeno il problema, l’unanimità della retorica lo affoga nell’insensatezza. È ciò che accade già al 27 gennaio, quando anche l’assessore ai giardinetti di Borgo Tre Case si sente in dovere di attingere allo stanco repertorio del comunicatificio di massa per concionare su male, bene, tragedia, messaggi universali, etica globale, “l’ora più buia”, ciò che è stato “condannato dalla storia”, la “vigilanza” e ciò che “non deve ripetersi mai più”. Questa non è memoria, è chiacchiera, un discorso che gira a vuoto, e che la stragrande maggioranza dei suoi destinatari ascolta distrattamente, con noia. Questo è quello che accade il 27 gennaio.
Le polemiche tengono in vita il 10 febbraio
Il 10 febbraio è tenuto paradossalmente in vita dalle polemiche stesse, ma è evidente che una ricorrenza che trae senso dalle sue contestazioni non ha senso di esistere. E allora, come se ne esce? Semplice: liberando la memoria. Lasciando il campo libero a tutte le affermazioni e a tutte le negazioni, a tutte le sensibilità e al loro contrario, riconoscendo la libera contesa delle egemonie, arrendendosi alla conflittualità manifesta dei ricordi contrapposti. Fuori la burocrazia dalla memoria. Lasciamo il ricordo a chi sa tenerlo in vita senza l’aiuto di carte bollate e decreti.
Adriano Scianca
2 comments
L’iniziativa del 10 Febbraio che ricorda le atrocità delle foibe e della cacciata degli italiani d’Istria,Dalmazia e Fiume ogni anno diventa pane per i denti affilati di coloro i quali non aspettano altro per riprendere – con partigianeria – la vecchia contrapposizione fascismo-antifascismo.L’Italia è il paese che nel 1969 ha reso onore a Tito destinandogli l’onorificenza di Cavaliere di gran Croce e nel 1979 ha votato per l’ingresso nell’ONU della Cambogia con a capo uno fra i più esecrati criminali comunisti del secolo scorso, Pol Pot. In questa Italia che non ha memoria collettiva condivisa,le giornate della memoria sono solo un atto strumentale e anche sterile.Il direttore Scianca provoca con la sua tesi, ma stimola l’approfondimento. “Liberiamo,appunto,la memoria lasciando il ricordo a chi lo sa tenere in vita”.Bravo Scianca,in questa Italia divisa dove la verità fa male a chi l’ha voluta nascondere,ognuno commemori i suoi morti.
Le vittime e gli esuli di quelle terre appartengono ai vinti,sono il parto della disfatta.
La loro persecuzione è opera dei vincitori, l’oblìo della memoria e la mistificazione della realtà sono ascrivibili
non solo ai comunisti,che appoggiarono Tito,ma a tutti coloro che impersonificarono l’ignavia.Non si può comunque sottovalutare quanto queste iniziative,seppur osteggiate,seppur discutibili abbiano concorso a far conoscere quanto accadde.A causa della memoria non condivisa anche l’intitolazione di vie e piazze a uomini,personaggi legati all’epoca fascista o al al partito che ne rappresentò l’eredità,genera polemiche, chiacchiere,strumentalizzazioni;si assiste a riprovevoli conflitti e respingimenti.
Quest’Italia a distanza di 75 anni dalla fine della guerra non è pronta per riconoscere se stessa.
La damnatio memoriae è un peso che dovremo portarci finchè….il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Micu G. dalla terra di ‘nduja
Vogliio un’Italia dove in ogni casa ed in ogni ristorante ci si strafoga di spongata, sapendo che è ebraica, e ci si ubriaca di maraschino, sapendo che è dalmata. Quanto alle memorie dolorose di ciascuno, come non provare riguardo per queste? Ma, per l’appunto, ognuno ha la sua. Difficile estenderle ai non diretti interessati. Si rischia un’ipocrita adesione di massa a tutti i dolori del mondo, per paura di essere tacciati pubblicamente delle peggiori infamie.