Roma, 21 gen – Nel mese di novembre del 2014, l’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) ha pubblicato l’ultimo report relativo alle statistiche mondiali del traffico di esseri umani, tematica che diventa sempre più di cruciale importanza per la gestione di questioni di politica economica, nonché di politica interna e sicurezza per tutti i paesi del mondo. 128 sono gli Stati che hanno aderito all’iniziativa e per i quali sono stati pubblicati i dati per gli anni 2010-2012. Nonostante l’elevato numero di questi, bisogna tenere necessariamente in considerazione che ciò che sappiamo grazie a questo documento resta soltanto la punta di un iceberg ben più grande, in quanto ciò che avviene per questo tipo di criminalità resta per lo più coperto dalle acque torbide di un’economia illecita.
Quando si pensa al traffico di essere umani vengono in mente nell’immediato immagini quali sbarchi di emigranti alla deriva, flussi migratori da un capo all’altro del mondo, problemi lontani dalla routine occidentale se non fosse per le conseguenze che generano. In realtà il problema è molto più vicino rispetto a quanto appare nell’immaginario collettivo: la maggior parte delle vittime, per qualsiasi regione o continente si tratti, vengono identificate nei paesi immediatamente confinanti rispetto a quelli d’origine (40%) e il 95% degli sfruttatori è della stessa cittadinanza degli sfruttati. Per circa un caso su tre, lo sfruttamento avviene addirittura nello stesso paese di provenienza della vittima (34%). Invece, i flussi transregionali coinvolgono solo le tratte che hanno come destinazione i paesi ricchi del Medio Oriente, dell’Europa Occidentale e del Nord America (26% del totale). Sono circa 510 i flussi registrati nei due anni qui presi in considerazione.
E’ necessario definire come traffico di esseri umani quell’attività che prevede il reclutamento, la cattura o il sequestro di persone e il loro conseguente trasporto verso le destinazioni presso cui verranno sottoposte a regime di sfruttamento. Diversi sono i tipi di attività destinatarie di questa particolare economia illecita: il 40% della popolazione vittima di questo abuso è costretta ai lavori forzati (manodopera agricola, industriale, domestica), lo 0.3 % è soggetta ad esportazione di organi, mentre, escludendo un 7% classificato come “altre attività” (criminalità forzata, frode, adozioni illegali, rituali), la percentuale più alta si riscontra per lo sfruttamento a sfondo sessuale (si arriva al 53 %). Le regioni in cui la prostituzione come conseguenza del traffico di persone risultano avere sul proprio territorio il maggior numero di vittime sono l’Europa e l’Asia Centrale, seguite da Asia Orientale, Meridionale e Pacifico, mentre negli Stati Uniti e nel Sud America la percentuale di sfruttati per lavori forzati e prostituzione risulta essere quasi paritaria (47 e 48%).
Da questi numeri si può anche facilmente intuire quali siano le principali vittime: quasi la metà sono donne, il 33% bambini e il 18% uomini adulti. Per quanto riguarda i bambini, su tre individui due sono di genere femminile e uno solo è di genere maschile; rispetto ai dati riportati per gli anni 2007-2010, il loro numero è aumentato del 5%. Anche in questo caso, si riscontrano delle significative differenze regionali: i minori di 18 anni rappresentano più del 60% degli sfruttati in Africa e Medio Oriente, mentre in Europa e in Asia Centrale quasi l’85% è composto da adulti.
Rispetto ad altri tipi di crimini si evince un’altra anomalia: le donne sospettate come trafficanti di esseri umani sono circa il 40% rispetto al totale; percentuale assolutamente alta se messa in paragone con altre attività illecite internazionali. Questo dato è in parte causa e in parte conseguenza di quella che rappresenta la fetta più consistente del tipo di sfruttamento di destinazione delle vittime: di certo si può constatare come le trafficanti donne siano maggiormente coinvolte nel traffico di individui di genere femminile. Questa atipicità si può spiegare anche per il ruolo che le donne ricoprono in questa attività: vengono spesso utilizzate come reclutatrici, guardie, tesoriere e/o receptionist presso i luoghi in cui avviene lo sfruttamento; sono tutte prestazioni che richiedono un diretto contatto con le vittime e la maggior parte delle indagini si basano essenzialmente sulle testimonianze degli sfruttati.
I criminali coinvolti in questo tipo di attività possono agire da soli, con un piccolo gruppo o attraverso reti di organizzazioni di diverso tipo. Per lo più esiste un rapporto diretto tra distanza tra paese d’origine e paese destinatario e complessità dell’organizzazione che vi è alle spalle. Ad esempio, per quanto riguarda le operazioni locali, queste richiedono un basso numero di trafficanti e di vittime, mentre il profitto, l’investimento e il rischio sono da considerarsi molto irrisori per i criminali stessi; di contro quando si tratta di operazioni transregionali e su vasta scala, il numero di trafficanti aumenta fino a coinvolgere più reti di criminalità internazionale, il numero delle vittime e la quantità degli introiti è considerevole, mentre il rischio di condanna diventa più elevato (anche per via dei confini e della necessità di procurare documenti alle vittime).
Il motore che spinge questo mondo criminale ad andare avanti è evidentemente il profitto economico e il business che gira intorno allo sfruttamento delle vittime, mentre le reazioni dei governi sembrano essere irrilevanti. Infatti, solo il 16% dei 128 paesi che hanno preso parte alla realizzazione di questo report hanno dichiarato colpevoli poco più di 50 trafficanti in due anni, il 26% meno di 10 individui: questo è sicuramente indice che gli Stati reagiscono in maniera molto approssimativa a un problema che rischia di diventare, se già non lo è, una delle maggiori cause di disordine politico e sociale dei nostri tempi.
Ada Oppedisano