Roma, 28 dic – È davvero insopportabile la retorica con cui i social network provano a illustrare quanto incredibilmente uniche, bellissime e originali siano le esistenze, in realtà assolutamente banali e conformistiche, dei loro clienti. Il video con cui Facebook ci propone di riassumere il nostro 2014, all’insegna dello slogan “è stato un anno meraviglioso”, fa parte proprio di questo meccanismo.
Ma perché mai il 2014 deve per forza essere stato un anno “meraviglioso” anziché semplicemente “buono” o “normale”, “nella media”, “insignificante”, “sfortunato”, “triste”, “terribile”, “disastroso”? Questa fissazione americana per l’happy end, per la semplificazione ottimistica, per il rifiuto del tragico è quanto di più indigesto si possa immaginare. E tuttavia, la polemica contro il video di Facebook sollevata da Eric Meyer, molto pubblicizzata in questi giorni sui media, non sembra cogliere nel segno.
Scrittore, blogger e webdesigner, Meyer ha perso quest’anno la sua bambina, stroncata da un cancro nel giorno del suo sesto compleanno. Un evento terribile, che ha fatto del 2014 di Eric certo un anno non “meraviglioso”, anche se l’algoritmo del social network gli ha ugualmente suggerito un’anteprima del suo video riepilogativo, aperto beffardamente da una copertina che ritraeva la bambina scomparsa.
Meyer ha fatto allora notare sul suo blog quanto inappropriate fossero le impostazioni dell’algoritmo, chiedendo che venissero apportate delle modifiche, cosa che Facebook si è detto pronto a fare, non prima di aver chiesto scusa all’uomo per l’involontaria insensibilità.
Ora, il lutto terribile subito dall’uomo solo pochi mesi fa smuove tutta l’umana pietà di cui ciascuno di noi può essere capace. Ma quel che normalmente è insindacabile – l’esperienza e l’elaborazione del dolore estremo – diventa invece oggetto di prosaico dibattito quando l’interessato stesso ne fa la bandiera di una campagna condotta pubblicamente, sollevando temi di interesse generale.
Vediamo, dunque: Meyer chiede di cambiare l’impostazione di un algoritmo perché si è sentito personalmente ferito. Primo punto: Facebook non è un’istituzione né un ente di pubblica utilità. Perché dovrebbe ascoltare la richiesta se non per prosaiche ragioni di marketing? Questa idea di pretendere il riconoscimento di “diritti” da aziende private è – o, meglio, lo sarebbe se l’occasione fosse meno tragica – risibile. Se non ci piace come Facebook utilizza le foto e i ricordi la cui gestione noi stessi gli abbiamo appaltato, si può cancellare l’account (che poi questa procedura sia tutt’altro che semplice è un altro discorso).
Secondo punto: quando ci capita qualcosa di doloroso e di sconvolgente, la nostra vita cambia. È un dato di fatto. Le tragedie capitano. E quando accade ne usciamo trasformati. Sta a noi trovare un modus vivendi fra la routine quotidiana e l’elaborazione del lutto, non al resto del mondo. La realtà non è tarata sulle nostre emozioni.
Se Facebook non esistesse, se non ci fossero neanche i computer, potrebbe sempre capitare un vecchio amico che non vediamo da tanto tempo e che, al momento di vederci, potrebbe uscirsene con “come sta la piccola?”. Fa male, è una ferita che si riapre. Ma non è colpa del vecchio amico. Non è colpa di nessuno. È che quella ferita ora ce l’abbiamo. Non possiamo far finta di niente, che è anzi il modo migliore per farla tornare a sanguinare. Dobbiamo lavorare affinché diventi una cicatrice, che non sanguinerà più, ma farà comunque sempre male.
È come se ci capita di perdere la vista: sta a noi trovare il nostro posto nel mondo alla luce del nuovo handicap, cercando di vivere una vita quanto più possibile ricca di senso, ma sapendo che l’handicap c’è e ci pone sfide continue, non tutte superabili. Oggi, invece, va di moda l’atteggiamento opposto, tant’è che ci si inventano cose come il “calcio per non vedenti”, che è un’ovvia assurdità ma che è perfettamente in linea con l’atteggiamento di esorcismo dei problemi che oggi va per la maggiore.
Eric Meyer sta contestando Facebook secondo la stessa logica del social network, chiedendo conto al mondo del perché per lui non sia stato, come invece dovrebbe essere (la “ricerca della felicità” non è forse un diritto?), “un anno meraviglioso”. È l’umanissimo, comprensibilissimo scatto di invidia che coglie ciascuno di noi quando vede la fortuna, o anche solo la normalità, depositarsi attorno alla propria sfortuna. È un sentimento che va compreso, ma su cui non si può costruire una morale universale. E forse neanche una netiquette.
Giuliano Lebelli