Roma, 12 mag – Vi immaginereste mai cosa possa significare combattere una guerra senza i propri arti? Pensateci solo per un momento, non solo dover prendere in mano il fucile o lanciare una bomba. Evidentemente, per un personaggio del calibro di Luigi Settino, il pericolo non era ammesso.
Il calabrese al nord
Luigi Settino nacque a San Pietro in Guarano, un paesino calabrese che al giorno d’oggi conta appena 3600 anime. La sua non era una condizione agiata per cui, come molti altri suoi compatrioti, si arruolò nell’esercito. La guerra arriverà di lì a pochi mesi e le “tante Italie”, come era solito designare i soldati che venivano da tutta la penisola per la difesa dei confini settentrionali, si resero partecipi di coraggiosi atti di eroismo.
“Caro padre ti scrivo per dirti che sto bene, lo stesso siete voi. Non scrivo tanto che sono molto stanco che ieri sera calai di nuovo e non mi sento tanto di scrivere”, così leggiamo in una lettera di Settino al padre.
La mutilazione
“Noi siamo figli dell’amore ma io sarò figlio anche della patria”, è l’ultima frase di una lettera di Settino all’amata Amalia che attendeva il ritorno del fidanzato. La sua è una storia di romanticismo e di patriottismo oltre che una forte dose di eroismo che difficilmente si ripeterà nel corso della Storia.
Il 14 maggio 1917, quando Settino ha appena compiuto 30 anni, una bomba cade sulla sua trincea e lo colpisce in pieno. E’ vivo per miracolo ma perde gambe e braccia. Subito arrivano i soccorsi ma lui dice di stare bene, di potersela cavare e di aiutare gli altri in prima linea. Soccorso nuovamente ordinò di restare lì, al fianco dei suoi amici, per morire in trincea e non su di un letto del campo medico. Il soldato morirà dove volle lui, in una trincea nei pressi di Dosso Faiti.
In suo onore, per volere del re Vittorio Emanuele III – profondamente commosso dall’atto di amor di Patria – venne conferita a Settino una medaglia d’oro al valor militare, sulla quale leggiamo: “Privato delle braccia e delle gambe dallo scoppio di una granata che gli produceva anche una larga ferita alla faccia, incitava calorosamente i compagni a scagliarsi contro il nemico per respingerlo. Rifiutava ogni soccorso per non sottrarre soldati al combattimento. Respinto l’attacco, non volle essere asportato dalla trincea, chiedendo all’ufficiale di poter restare in linea, contento di morire tra i suoi compagni per la grandezza della Patria”.
Tommaso Lunardi
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