Tokyo, 16 dic – “Non ci sono alternative”. Così dichiarò Abe sabato sera, al comizio finale della campagna elettorale presso la Electric Town di Akihabara, il quartiere degli otaku a Tokyo. E così è stato: nessuna alternativa. Il premier dimissionario vince la sua scommessa: andare alle elezioni dopo appena due anni dall’inizio dell’incarico, indire una sorta di referendum sul proprio operato ed ottenere pieni poteri.
I risultati definitivi delle elezioni per la Camera dei Rappresentanti portano il Partito Liberal Democratico (LDP) di Abe a 291 seggi i quali, sommati a quelli (35) dell’alleato New Komeito, portano il totale di coalizione a 326. Seguono il Partito Democratico del Giappone (DPJ) con 73 seggi, il Partito Innovatore Giapponese (JIP) con 41, il Partito per le Generazioni Future (PFG), il Partito Social Democratico (SDP) ed il Partito per la Vita del Popolo (PLP) con 2 seggi. Unica sorpresa il Partito Comunista Giapponese (JCP), che raddoppia i propri seggi passando da 10 a 21.
Grazie ai primi risultati dell’Abenomics, la politica economica del premier basata su forti stimoli statali per rivitalizzare l’economia stagnante e deflattiva del Giappone, che sono stati capaci di realizzare l’aumento dei salari del 2% ed il rapporto tra offerta e domanda di lavoro più alta degli ultimi 22 anni, sommati alla decisione di rimandare di 18 mesi l’aumento dell’Iva al 10% programmato per l’ottobre 2015, il leader del LDP ottiene il consenso del popolo.
Trionfo quindi per Abe. Ma un trionfo che non risiede tanto nell’aver battuto i propri concorrenti – l’LDP governa quasi ininterrottamente dal 1955 – quanto dall’aver raggiunto e superato con una certa sicurezza la soglia dei due terzi dei seggi (316), cosa che gli permette di realizzare in autonomia riforme costituzionali senza coinvolgere l’opposizione e rendere contemporaneamente inoffensivo il ruolo della Camera dei Consiglieri che, secondo la Costituzione giapponese, risulta incapace di bloccare le proposte di una Camera dei Rappresentanti avente tale maggioranza.
Adesso ci si chiede quali siano i primi passi del nuovo governo. Se questa maggioranza permetterà la possibilità di ammorbidire ulteriormente la castrante costituzione iperpacifista, già in parte riformata ultimamente con la possibilità di utilizzo dell’esercito in caso di minacce alla sicurezza giapponese, il prossimo passo in politica interna sarà quello di dare il via alla già programmata riforma dell’educazione e della sanità a supporto dell’infanzia. Un’ampia strategia di contrasto alla crisi demografica, che partirà con il potenziamento dei nintei kodomoen, centri pubblici che integrano la funzione di asili per l’infanzia e sostegno in day hospital per i bambini al di sotto dei sei anni. Una riforma da 700 miliardi di yen che, assieme all’aumento delle pensioni minime e di invalidità, sarà introdotta in maniera scaglionata nel tempo ed andrà a pieno regime nell’aprile 2017, con le entrate derivanti dall’Iva.
Sul fronte internazionale, che vede il Giappone interessato nella controversia con la Cina per la sovranità delle Isole Senkaku e con la Russia per le Isole Curili – oltre al mai sopito interesse per Sakhalin, occupata con infamia da Stalin a guerra finita – non ridono vicini e maggiori partner, infastiditi dai venti di rinascita dell’Impero.
In seguito al risultato elettorale, in Cina le fonti ufficiali mostrano nuove tensioni da parte del gigante comunista ed è l’agenzia governativa Xinhua News ad insinuare dubbi sulla liceità della vittoria di Abe bollandola come “magica”, riferendosi alle problematiche economiche del vicino. Da parte sua la Corea del Sud chiede, con una certa arroganza, che tali elezioni “aiutino il Giappone ad instaurare relazioni amichevoli con i propri vicini sulla base di fondamenta politiche stabili e la corretta comprensione della storia”. Da oltreoceano giungono congratulazioni da parte dell’alleato statunitense, ma i rapporti con gli Usa stessi volteggiano al minimo storico dal dopoguerra: dopo le prime timide richieste giunte negli anni duemila per un maggiore impegno del Giappone sullo scacchiere internazionale – in seguito alla congiuntura economica sfavorevole, alla crescita della Cina ed alle necessità di disimpegno numerico americano – a Washington si è provveduto a cambiare rapidamente idea. Se, ai tempi di Bush figlio, l’ascesa di Abe e della sua ferrea volontà di rinascita nazionale sarebbero stati visti positivamente, l’America obamiana, debole e conciliante con il colosso continentale, non può fare altrimenti.
Tentando l’utilizzo di un sempre meno influente soft power per indurre a più miti consigli l’alleato, Obama ottiene però di perdere maggiormente terreno nell’arcipelago: la pressione degli istituti americani di rating, tramite downgrading, non fa ne caldo ne freddo in Giappone, dove i tassi di mercato addirittura diminuiscono; mentre il presidente torna a mani vuote dalla visita ufficiale a Tokyo di aprile, quando il governo nipponico rifiutò l’approvazione del Trattato di Scambio Transoceanico, così come la possibilità di accesso ai protettissimi mercati automobilistico ed agricolo.
E’ quindi un Giappone che tenta di reagire con forza alle prospettive di un declino geopolitico, economico, demografico e sociale, il dibattito sul quale è veicolato da più di un decennio attraverso ogni canale della società nipponica – dalla politica alla ricerca universitaria, dai media classici fino alle tematiche affrontate in anime e manga – decretando una vera e propria presa di coscienza da parte del popolo sul rischio per il Giappone, usando le recenti parole del prof. Tadae Takubo dell’influente Japan Institute for National Fundamentals, di “essere schiacciati e spegnersi tra due potenze, Usa e Cina, diventando una piccola nazione senza speranza”.
Una presa di coscienza che dovrebbe farci riflettere.
Gabriele Taddei