Milano, 15 apr – A voler seguire un filone a metà tra il becero e il goliardico ce la si potrebbe cavare con un “…e anche questo Salone ce lo siamo levato dalle palle”. Ma il grande classico, citazione di una celebre commedia italiana anni ’80, sarebbe buttato lì, in modo francamente sciatto e improprio.
E’ vero: il misantropo che è in noi si infastidisce trovandosi risucchiato dalle masse di visitatori e dalle mandrie assetate di aperitivi. Va detto però che il Salone del Mobile è un appuntamento importante, per un settore strategico della manifattura Made in Italy e per il genio raffinato del design italico. C’è una grande storia dietro, che va dagli straordinari mobilieri della Brianza alle splendide matite che ci regalano da decenni linee superbe. La bellezza non si tocca, il lavoro di quanti producono e competono ai massimi livelli in tutto il mondo nemmeno.
Una cultura deformante
Tuttavia, possiamo serenamente registrare che attorno all’evento Salone si muove una fauna insopportabile, spinta da un cultura tanto debole quanto deformante. E’ percepibile a tutti i livelli l’alterazione di realtà, di valori, di orizzonti. Tanto sono straordinariamente veri quegli armadi e quelle poltrone, tanto sono artefatti e inconsistenti i loro presunti adoratori; dalle autorità politiche alle archistar sedute su ben altre poltrone, dagli intellettuali da ben altro salotto, fino alle mandrie semicolte di giovani, meno giovani e rugosi pseudo esteti del nulla.
Francamente non se ne può più. Lo diciamo da Milano, questa Milano falsata dalla doppia retorica del sindaco Sala, che da un lato si autocelebra vantando benessere e ricchezza (la sua e quella di chi sta dalla sua parte della vetrina), dall’altro impone un modello votato all’autoinvasione di orde di immigrati cui consegnare le chiavi della città, quella dove vive la gente “normale”.
Andate a lavorare
Il rapporto tra Milano e il lavoro, tra la metropoli e lo sviluppo, tra la capitale del Nord e l’innovazione feconda è sempre stato fuori discussione. Lo è stato, in epoche diverse, perché ce n’erano il senso, la prospettiva, le proporzioni, soprattutto in tema di ordine e giustizia sociale. Fu così persino ai tempi della “Milano da bere”, pur condita com’era dall’effimero e viziata da qualche tic da stereotipo.
Qui, oggi, c’è ben poco da apprezzare di fronte al ridicolo vagabondare di democraticissimi scrocconi di cocktail, improbabili cultori del design e curiosi bipedi dall’imperscrutabile identità sessuale. Il Salone ha chiuso i suoi portoni, il Fuorisalone ha ritirato gli ultimi bicchieri e adesso – come direbbe qualche vecchio milanese – andate a lavorare, barboni!
Fabio Pasini
1 commento
Sacrosante verità. L’unico articolo che descrive una realtà completamente diversa da quella raccontata da altri media…. Finalmente è tutto finito. Ma povera Milano, poveri
noi.