Roma, 23 mar – Il 23 marzo 1919 veniva fondato il movimento Fasci italiani di combattimento che troverà poi la sua naturale evoluzione nel 1921 nel Partito Nazionale Fascista. Come forse alcuni di voi sapranno, la rivoluzione iniziata da Benito Mussolini si concretizzerà in venti anni di potere: venti anni che hanno stravolto – e va da sé, migliorato – la struttura stessa del Paese e dunque anche la sua cultura.
“La cinematografia è l’arma più forte” è una citazione emblematica – se consideriamo che è del 1922 – di Benito Mussolini e ad oggi ancor più profetica: illustra quanto innovatrice fosse la portata dell’ideologia fascista. Non dimentichiamo che la mostra del cinema di Venezia, oggi kermesse di belle anime equosolidali, ha visto i suoi natali nel 1932 proprio per volontà del regime. E come non menzionare questo piccolo particolare della fondazione di Cinecittà nel 1937 – come per altro l’istituzione del Centro Sperimentale di Cinematografia.
Molti nell’impegno profuso dal regime nello sviluppo del cinema italiano vogliono vederci un paragone orwelliano di controllo delle masse: ma ad esempio nel 1936 i film di esplicita propaganda furono 3 su 43: meno del 10 %.
Il cinema in epoca fascista fu ben altro che mera propaganda, dunque, ma fu portatore sano di talenti: registi, attori e sceneggiatori che, nell’immediato dopoguerra, avrebbero dato il via al neorealismo o alla mai sufficientemente compianta commedia all’italiana.
Oggi elenchiamo i 5 film più belli prodotti durante il Ventennio, che tutti voi una volta nella vita dovreste vedere.
5 – Avanti c’è posto, di Mario Bonnard (1942)
Siamo già negli anni della guerra e questa commedia sembra quasi voler rinfrancare lo spirito della popolazione: girato interamente a Cinecittà il film vede la partecipazione dell’indimenticato Aldo Fabrizi, alla sua prima prova da protagonista. Rosella, interpretata dalla bellissima Adriana Benetti, viene derubata dei soldi dell’affitto e perde la casa. Il bigliettaio romano Cesare prima la aiuta, e poi se ne innamora. Rossella prova affetto per lui, ma quando conosce il bel Bruno, Cesare capisce che il suo amore non ha speranza: e fa sì che i due giovani si incontrino prima che Bruno venga richiamato al fronte. Insieme al “guru” del neorealismo Zavattini è menzionato negli sceneggiatori anche un certo “Federico”: altri non è che Federico Fellini. All’epoca il regista de La dolce vita curava i dialoghi di avanspettacolo di Fabrizi ed è proprio grazie a questa amicizia che si deve la partecipazione del fratello della Sora Lella a Roma città aperta: Fabrizi, infatti, era perplesso e anche un po’ spaventato nell’accettare il ruolo di Don Pappagallo. Il film fu girato infatti appena alla fine della guerra e la leggenda vuole che l’attore temesse che di lì a breve potesse tornare il fascismo.
4 – Gli uomini, che mascalzoni, di Mario Camerini (1932)
Film gioiello della prima edizione della Mostra del cinema di Venezia: riscosse un successo strepitoso, e non solo in patria, ma anche all’estero. Si fregia di essere il film che per primo fece brillare la stella di Vittorio De Sica che, inoltre, in una sequenza canta la celebre Parlami d’amore Mariù. E’ ambientato nella frenetica Milano degli anni trenta dove l’autista Bruno si innamora di Mariuccia, umile e schiva commessa: tuttavia il ragazzo non fa colpo perchè si presente sempre in bicicletta. Quando Bruno ha l’idea di presentarsi con l’auto del “padrone” (una Fiat 525 Torpedo), la conquista. Da lì una serie di equivoci e peripezie: la commedia è incredibilmente fresca, dinamica e innovativa. Persino per i nostri canoni – ora pagheremmo oro per avere dei dialoghi così arguti. Altra innovazione del film è nel fatto che fu girato quasi interamente in esterno: all’epoca, infatti, era usanza quella di girare nei teatri di posa le scene che dovevano rappresentare paesaggi naturalistici o di città. Camerini rifiutò questo senso di “fasullo” e convinse il produttore a rappresentare la vera Milano: è uno scorcio imperdibile – seppur leggero – del mondo quotidiano ai tempi del Ventennio.
3 – Scipione l’Africano, Carmine Gallone (1937)
Il progetto di realizzare un film per celebrare gesta di Scipione partì nel 1935, nel clima delle sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’impresa africana. Il film ebbe all’epoca a disposizione un budget impressionante: fu addirittura istituito all’uopo il Consorzio Scipione l’Africano. Non a caso per questa pellicola si parla di kolossal. Per la regia si pensò dapprima a fedele fascista Alessandro Blasetti ma si arrivò poi a Carmine Gallone che nel 1926 aveva girato un altro film epico e sempre un kolossal, il maestoso Gli ultimi giorni di Pompei. Le riprese durarono più di sette mesi. Per la scena della battaglia di Zama fu necessaria la presenza di diecimila comparse nel ruolo di fanti, duemila per quello dei cavalieri e nientemeno che trenta elefanti. Un obiettivo a focale variabile (che ha permesso le suggestive carrellate delle scene di massa) venne fatto pervenire appositamente dall’Inghilterra. Pur nella sua epicità, Gallone riesce a dare al film un taglio espressionista ed etereo, in particolar modo nelle scene di tensione come l’avvicendarsi delle navi sull’acqua o la scena iniziale nel Foro Romano. Terminato nel luglio 1937 già il 4 agosto fu presentato a Benito Mussolini e poco dopo avrebbe vinto, appunto, la Coppa Mussolini alla Mostra del Cinema di Venezia (e questo nonostante l’attore protagonista, Annibale Ninchi, non piacesse affatto al Duce che di lui disse: “Se Scipione avesse avuto l’aspetto debole di questo attore, non so se sarebbe riuscito a vincere anche una sola battaglia!“). Piccola curiosità: nel film appare come comparsa, alla sua prima presenza sullo schermo, un Alberto Sordi diciassettenne.
2 – Lo squadrone bianco, di Augusto Genina (1936)
Tratto da un racconto del 1931 di Joseph Peyré, L’Éscadron blanc, fu girato interamente in Libia, all’epoca colonia italiana, narra del tenente di cavalleria Ludovici (Antonio Centa) che per combattere la malinconia di una delusione amorosa si arruola nel corpo militare dei Meharisti. Una banda di ribelli tuttavia minaccia la tranquillità del campo dunque il comando invia uno squadrone di temerari all’inseguimento dei criminali. La spedizione è lunga ed ostica, nel deserto: penuria d’acqua, tempeste di sabbia li funestano. Ma lo squadrone perdura nell’inseguimento e Ludovici supera le proprie idiosincrasie con il capo e tiene duro. Al termine della corsa c’è una sanguinosa battaglia con i ribelli in cui perde la vita il prode capitano Santelia. Toccherà quindi al protagonista guidare gli uomini nel ritorno attraverso il deserto: e quando al rientro troverà la donna amata – interpretata dalla algida Fulvia Lanzi, alla sua prima ed ultima prova da attrice – pronta a giurargli di nuovo eterno amore, Ludovici rifiuterà. Ora la sua vita è nel deserto.
Le riprese iniziarono nel 1936 nel deserto libico: l’accampamento fu ricostruito presso il forte Sinauen, e altre riprese ebbero come sfondo l’oasi di Gadames al confine con la Tunisia. Il governatore della colonia Italo Balbo si prodigò fornendo materiali e anche truppe: per l’occasione i meharisti italiani indossarono il burns bianco invece che nero, per adattarsi al racconto da cui era tratto il film. Antonio Centa il protagonista, fu un “avanguardista bresciano nel 1921 ed autore della marcia su Roma” secondo le fonti dell’epoca. Dopo aver vinto la Coppa Mussolini a Venezia (decisione contestata dalla platea che gli preferiva Cavalleria) Lo squadrone bianco ebbe un successo strepitoso all’estero: in Francia, in primis, ma anche in Germania, Inghilterra e Giappone. Ottenne anche critiche favorevoli sul New York Times: i recensori stranieri definiro il film come un “esempio di un cinema in cui si combinano gli ideali fascisti con un ottimo valore spettacolare“.
1 – Vecchia Guardia, di Alessandro Blasetti (1934)
Il film è un documento storico interessantissimo poiché fu girato in gran parte a Viterbo. La storia è ambientata nel 1922, Roberto è uno squadrista reduce della Grande Guerra che ora, disoccupato, combatte contro i lavoratori che scioperano. Il padre è un medico, dirige un manicomio e cerca, infruttuosamente, di terminare uno sciopero degli infermieri: Roberto interviene e scoppiano scontri tra fascisti e infermieri. Molti infermieri saranno costretti dagli squadristi a a bere l’olio di ricino. Gli squadristi si rendono protagonisti di altre azioni spettacolari: riaprire le scuole elementari chiuse, ad esempio, senza smettere in tutto ciò di scontrarsi con i socialisti. Roberto, ha un fratello minore, Mario che non vede l’ora di entrare in azione e non può, data la giovane età. Una sera quindi sale di nascosto a a bordo di una camionetta e a partecipare a una spedizione: ed è così che perde la vita, colpito un operaio socialista. Da questa tragedia la decisione di molti “indecisi” di prendere parte alla marcia su Roma: raggruppatisi ad orte, gli squadristi partono alla volta della capitale. Il taglio neorealista ante litteram del film è la sua qualità più forte che permette di empatizzare con i protagonisti. Otello Martelli, il direttore della fotografia, dosa saggiamente le luci dandogli una forte carica espressiva (da notare come, nelle riprese in cui i protagonisti sono i “rossi”, le tinte si facciano fosche e chiaroscuri accentuati). Voci di corridoio vogliono che Mussolini alla visione del film abbia addirittura pianto; in generale, sebbene fu accolto con una sorta di freddezza dalle gerarchie fascisti che forse preferivano “dimenticare” il periodo squadrista, è un film qualitativamente altissimo, dal punto di vista della regia e dell’onesta resa dei personaggi. Un film che voleva senz’altro, in una certa misura, essere di propaganda ma che non rinuncia a narrare una storia realistica – fatta di violenza, botte e disperazione e della reazione finale.
Ilaria Paoletti
2 comments
vecchia GUARDIA , correggete
I miei omaggi. E’ giusto far conoscere questo cinema, non solo perché l’occupazione americana in Europa e il sistema NATO ha voluto allontanarli dagli occhi del pubblico italiano e internazionale, inondandoci dei film “made in USA” (e spesso glorificando la loro vittoria militare), ma anche perché vi è impiegato quel talento e quel dinamismo tecnico e teatrale que poi sarà la base del cosidetto Neorealismo italiano celebrato nel mondo della critica cinematografica. Luchino Visconti ha voluto impossessarsene pretendo che il suo “Ossessione” (1943, girato prima della caduta del fascismo) sia stato il punto di partenza. Ma molti accorgimenti tecnici e un’impegno ad aderire al verismo drammatico si ritrovano in tanti film del regime, come “Lo squadrone bianco”, ma anche il successivo “Bengasi” (1942) di Augusto Genina, che sarà inutile ai fini di propaganda bellica, a causa del rapido evolvere del teatro militare in Nordafrica.