Roma, 17 mar – Oggi è il giorno di San Patrizio e sebbene sia una tradizione irlandese in tutto il mondo si onora il santo in questione girando da un pub all’altro, da un bar all’altro cercando l’estasi e l’esaltazione alcoolica. Si beve per dimenticare, dice qualcuno, altri sostengono che solo in vino veritas e che quindi solo da ubriachi si dica – forse un po’ esagerando – la verità. In ogni caso, l’uomo ha sempre cercato l’ispirazione “mistica” attraverso l’alcool e va da sé che la creazione artistica va di pari passo. Alcuni dei migliori scrittori nella storia della letteratura erano – più o meno – alcoolizzati.
Ernest Hemingway
Tra di loro ricordiamo, ad esempio, Ernest Hemingway che ad una vita estremamente attiva, tra caccia, reportage di guerra e svariate mogli ed amanti nonché, ovviamente, alcune delle più belle opere letterarie ha accompagnato una carriera onorevole da forte bevitore, senza mai vergognarsene. “Un uomo intelligente a volte è costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti”: queste sono le sue parole. L’Hemingway bevitore forse più autentico è quello di Fiesta , romanzo – autobiografia dei suoi anni spagnoli agli inizi del Novecento tra amori tormentati e fiumi di rioja rosso (il tipico vino spagnolo) scritto in una sorta di flusso di coscienza dettato con ogni probabilità anche dall’alta gradazione alcoolica. Lo scrittore premio Nobel per la letteratura per Il vecchio e il mare era un così dedicato bevitore che nei suoi anni cubani diede il suo endorsement (e contribuì al successo planetario) al daiquiri, il cocktail a base di rum e zucchero di canna. Il suo preferito era quello che facevano a L’Avana, a Cuba, al celebre bar Floridita. La leggenda vuole che lo apprezzasse così tanto da berne 17 di fila. Hemingway era anche un grande fan del “nostro” vermouth Martini tanto da citarlo anche in Addio alle armi, il romanzo ambientato in Italia durante la Prima guerra mondiale, facendo dire al protagonista: “Non avevo bevuto nulla di così bello e pulito“.
Francis Scott Fitzgerald
Compagno di “sbronze” di Hem era (o, almeno, lo è stato per un po’ di tempo) un altro statunitense, l’immortale Francis Scott Fitzgerald. Come per il pugilato, il bere per Hemingway era uno sport e spesso sfidava l’autore di Belli e dannati a chi si ubriacava di più. Lo scrittore dell’età del jazz è estremamente autobiografico nelle sue opere: nei primi scritti, come ad esempio Di qua dal paradiso, possiamo assaporare insieme a lui le prime ubriacature, quelle dell’alcool che scorre in vene fresche ed intonse e crea esaltazione ed euforia. L’alcool rende le ragazze, le disinibite flapper, ancor più impertinenti. Una di loro, la famigerata Zelda, sarà l’amore della vita di Scott e anche lei sua partner di bevute. “Prima tu prendi un drink, poi il drink ne prende un altro, e infine il drink prende te” : la sua frase da consumato bevitore è forse emblematica di molte delle vostre “serate”. In tutte le sue opere successive è possibile notare come faccia bere l’alcoolico del suo cuore ai personaggi. L’oggetto del desiderio è il cocktail gin rickey: ghiaccio, gin, succo di limone fresco e una sottile fettina di lime. Un drink “vecchie maniere” come d’altronde era anche Fitzgerald, un garbato uomo del Sud proiettato nel progresso. Il cocktail è presente nel suo capolavoro Il grande Gatsby ma, soprattutto, in Tenera è la notte, l’opera che esprime appieno il crollo del suo sogno dorato in una pozza di realtà e, appunto, alcoolismo. “Tu non sai qual sapore le ceneri dei sogni abbiano” dice D’Annunzio nella sua Fedra, e Scott per non sentire quel sapore ci beveva decisamente su.
William Faulkner
Altro grande scrittore – e bevitore – è senz’altro William Faulkner. Anche lui premio Nobel per la letteratura nel 1949, era originario del “profondo Sud” americano, ovvero del Mississippi. Sicuramente il suo stile di scrittura “non lineare” (simile anche se non identico a quello di un altro grande autore – e alcoolista – James Joyce) era anche dettato oltre che dalla sua genialità dallo stato di estasi in cui lo gettava l’alcool. Il poeta di New Albany ammetteva candidamente, infatti, di avere sempre accanto a sé una bottiglia di bourbon (whisky tipico degli stati del Sud degli Usa) per poter scrivere fluidamente. Ma se Hemingway e Scott Fitzgerald hanno riversato le proprie vite nei loro libri come si versa un drink in un bicchiere, Faulkner è molto meno autobiografico. Ma è sempre possibile capire, attraverso le sue opere, quale fosse il suo drink preferito. E da bravo “southern” era un grande estimatore del mint julep: sciroppo, foglie di menta e di nuovo il caro vecchio bourbon.
Jack London
E sin qui gli autori citati (a cui certamente andrebbero aggiunti personaggi come Charles Bukowski, Joyce e molti, molti altri) sembrano farsi un cruccio della loro piccola “dipendenza” ma poi nemmeno troppo. Se c’è qualcuno che si è interrogato su questo consumo di alcool in maniera certamente non allineata, quello è Jack London. L’autore del Richiamo della foresta fu un precoce ed appassionatissimo bevitore. Questo non gli precluse in alcun modo una vita straordinaria ed avventurosa, da pescatore di ostriche a Oakland a scrittore di fama mondiale: tuttavia, è sorprendente come London, in tempi di proibizionismo, dia il suo incondizionato appoggio a questa iniziativa. Secondo l’autore di Zanna Bianca (fervente socialista) infatti, l’alcool non può “naturalmente” piacere all’essere umano: lo beviamo su pressione sociale. Ed esprime il suo apprezzamento all’impresa “proibizionista” scrivendo John Barleycorn, le sue “memorie alcooliche”. John Barleycorn è la personificazione nel gergo yankee dei derivati etilici dell’orzo (barley). L’opera è la narrazione della sua incredibile esistenza dal “punto di vista” dell’alcool: come ha iniziato a bere, perché, che vantaggi ne ha tratto e quali svantaggi. Se infatti inizialmente il bere lo “aiuta” nelle relazioni sociali e anche a sopportare un determinato tipo di fatica fisica, poi chiede il suo prezzo. London parla dell’ubriacatura come qualcosa che mette lo “stolto” a dormire rendendolo ancor più inutile, mentre mette in contatto l’uomo di “ingegno” con “pensieri” impropri, troppo profondi e vicini all’autodistruzione: secondo l’autore de Il vagabondo delle stelle grazie allo stato di estasi alcoolica si arriva alla “logica bianca” che porta a cogliere verità negative: “John Barleycorn invia all’uomo di fantasia i sillogismi spietati e spettrali della logica bianca. Guarda la vita e le cose della vita con l’occhio invidioso di un filosofo pessimista tedesco. Vede al di là di tutte le illusioni. Trasvaluta tutti i valori. Dio è male, la verità è un inganno, e la vita uno scherzo”. E concludiamo così, con l’ammonimento di London: oggi non esagerate col bere in onore di San Patrizio ma, se lo fate, tenete lontani gli smartphones – evitate di trasformarvi in scrittori con l’invio di messaggi non richiesti!
Ilaria Paoletti
1 commento
Dovrebbe far riflettere il fatto che su 4 scrittori citati, tutti e 4 fossero statunitensi (il 100%)…
Inquietante constatare la familiarità con l’alcool della quale questo popolo ha costantemente dato prova.