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L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., la catastrofe negli scritti romani di Pompei

by Andrea Bonazza
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Roma, 24 ago – Era il mezzogiorno di un caldo 24 agosto di 1943 anni fa. Nella bellissima zona del Golfo napoletano la giornata trascorreva tranquilla tra antichi mestieri, giochi e faccende domestiche. Senza che vi sia stato il minimo sentore, ad un tratto, il vulcano Vesuvio è esploso improvvisamente con tutta la furia accumulata in esso. L’eruzione stessa, la pioggia di rocce e zampilli infuocati, la pesante fuliggine e la lava incandescente del Vesuvio, seppellirono in breve tempo oltre diecimila persone delle zone di Ercolano, Pompei e Castellammare di Stabia. Era il 79 d.C., in uno dei periodi di maggior splendore dell’impero romano. Quello stesso giorno, nel corso dell’eruzione, un testimone di tutto rispetto riportava nientemeno che a Tacito, in due lettere, ciò che stava avvenendo nel golfo partenopeo. Stiamo parlando di Plinio il Giovane; nipote e figlioccio d’arte del più famoso Plinio il Vecchio, autore della magistrale opera “Naturalis historia“, probabilmente la prima enciclopedia naturalistica completa della storia dell’uomo.

Nonum kal. septembres

Come racconta il giovane Plinio, erano le calende di settembre, “Nonum kal. septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie.”, i 9 giorni di agosto che precedono il mese di settembre. “Il nono giorno prima delle calende di settembre, verso l’ora settima, mia madre gli mostra una nube inconsueta sia per forma che per grandezza” (Plinio il Giovane, Epistulae VI 16. La storica data, il 24 agosto del 79 d.C., nell’era contemporanea è confermata anche da moltissimi studi scientifici sui rilievi archeologici. Secondo alcuni storici, però, la data corretta sarebbe il 24 ottobre dello stesso anno. A sostegno di questa opzione, alcuni ricercatori hanno raccolto prove su diversi elementi rimasti fossilizzati dalle polveri del vulcano. Tra questi, i reperti maggiormente influenti sono sicuramente la frutta secca e il mosto in fermentazione; alimenti propri di inizio stagione autunnale. Vi è poi anche un altro reperto di straordinaria importanza: è la moneta coniata per celebrare l’acclamazione dell’imperatore Tito. Tale moneta dovrebbe quindi risalire alle giornate successive l’8 di settembre, data dell’incoronazione di Tito, e dunque smontare la tesi di Plinio che vuole l’eruzione il 24 agosto.

Il dilemma tra agosto ed ottobre

Stiamo però parlando della Campania di duemila anni fa; con usi, costumi e climi ben diversi da quelli attuali. A proposito di mosto e frutta secca, infatti, molte sarebbero le tesi già avanzate per smontare le teorie ottobrine. Lo stesso potrebbe valere anche per la ricerca numismatica della moneta celebrativa di Tito. A distanza di soli due mesi dall’elezione del nuovo imperatore, è infatti possibile che alcune bozze della moneta siano state forgiate per poter essere presentate all’alta nobiltà o ad alcuni membri del Senato romano che, come è risaputo, godevano di ricche proprietà nelle località campane.

L’ultimo coraggioso studio di Plinio il Vecchio

Come anticipavamo precedentemente, lo scrittore latino Plinio il Giovane era stato adottato dal più famoso zio, Plinio il Vecchio. Il grande storico romano abitava infatti nel golfo di Napoli e, quel 24 agosto del 79 d.C., non resistette a compiere il suo ultimo, incosciente ed eroico grandioso studio, ancora oggi fonte attendibile più antica e dettagliata in vulcanologia. Il vecchio Plinio assistette infatti all’eruzione del Vesuvio, descrivendone i particolari e spingendosi coraggiosamente verso la morte per soffocamento. La sua ultima grande impresa è stata dunque la ricerca della conoscenza di un fenomeno naturale che l’uomo reputò sempre divino. Culminò i suoi ultimi istanti regalando quindi al mondo il suo ultimo importantissimo lavoro che completava un intera vita di ricerche sugli studi naturalistici. In seguito alla morte di Plinio che grande cordoglio portò nella Roma imperiale, lo storico Tacito chiese al nipote, Plinio il Giovane, di raccontargli della morte dello zio per aiutarlo a scrivere ai posteri di quel terrificante evento. Proprio grazie alla risposta del giovane Plinio, ci è stata tramandata la cronaca dell’eruzione del Vesuvio.

Le lettere di Plinio il Giovane a Tacito

“Mio zio si trovava a Miseno dove comandava la flotta. Il 24 agosto, nel primo pomeriggio, mia madre attirò la sua attenzione su una nube di straordinaria forma e grandezza. Egli aveva fatto il bagno di sole, poi quello d’acqua fredda, si era fatto servire una colazione a letto e in quel momento stava studiando. Fattesi portare le scarpe si recò su un luogo elevato da dove si poteva benissimo contemplare il fenomeno.
Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da non poter essere paragonata a nessun albero meglio che a un pino. Infatti, drizzandosi come su un tronco altissimo, si allargava poi in una specie di ramificazione; e questo perché, suppongo io, sollevata dal vento proprio nel tempo in cui essa si formava, poi, al cedere del vento, abbandonata a sé o vinta dal suo stesso peso, si diffondeva ampiamente per l’aria dissolvendosi a poco a poco, ora candida, ora sordida e macchiata, secondo che portasse con sé terra o cenere”.

Il coraggio di sapere

“A mio zio, che era uomo dottissimo, tutto ciò parve un fenomeno importante e degno di essere osservato più da vicino, per cui ordinò che si preparasse una liburnica offrendomi se volevo, di andare con lui. Risposi che preferivo studiare: era stato lui stesso, infatti, ad assegnarmi qualcosa da scrivere. Mentre usciva di casa gli venne consegnato un biglietto di Retina, moglie di Casco, la quale, spaventata dall’imminente pericolo (perché la sua villa stava in basso e ormai non v’era altra via di scampo che montare su una nave), lo supplicava di liberarla da una situazione così tremenda”.

La corsa verso il pericolo

“Mio zio allora modificò il suo piano e compì con eroico coraggio quel che si era accinto a fare per ragioni di studio. Diede ordine di mettere in mare le quadriremi e vi salì egli stesso con l’intenzione di correre in aiuto non solo di Retina, ma di molti altri, perché quell’amenissima costa era fittamente popolata. In gran fretta si diresse là, da dove gli altri fuggivano, navigando diritto tenendo il timone verso il luogo del pericolo con animo così impavido da dettare o annotare egli stesso ogni nuova fase e ogni aspetto di quel terribile flagello, come gli si veniva presentando allo sguardo. Già la cenere cadeva sulle navi tanto più calda e fitta quanto più esse si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e frantumate dal fuoco; poi improvvisamente si trovarono in acque basse e il lido per i massi rotolati giù dal monte era divenuto inaccessibile. Egli rimase un momento incerto se dovesse tornare indietro. Poi, al pilota che lo consigliava, disse: ‘La fortuna aiuta gli audaci; drizza la prora verso la villa di Pomponiano a Stabiae!’”.

L’aiuto all’amico Pomponiano

“Questa località era sull’altra parte del golfo (perché la costa, girando e incurvandosi gradatamente, forma un’insenatura che il mare invade con le sue acque). Ivi, quando il pericolo non era ancora imminente, ma era stato veduto e, crescendo, s’era fatto più vicino, Pomponiano aveva imbarcato i suoi bagagli, deciso a fuggire nel caso il vento contrario si quietasse. Il vento favoriva in sommo grado la navigazione di mio zio, il quale, appena giunto, abbraccia l’amico tremante, lo conforta, lo incoraggia e, per calmare l’agitazione con l’esempio della propria tranquillità d’animo, si fa portare nel bagno; dopo essersi lavato, si mette a tavola e pranza tranquillamente o, cosa egualmente grande, in aspetto di persona serena“.

L’ultimo sonno prima dell’eterno

“Intanto su più parti del Vesuvio risplendevano larghe strisce di fuoco e alti incendi, il cui bagliore e la cui luce venivano aumentati dall’oscurità della notte. Lo zio, per liberare gli animi dalla paura, andava dicendo che quelli che ardevano erano fuochi lasciati accesi dai contadini nella loro fuga precipitosa, e ville abbandonate che bruciavano nella solitudine. Poi si mise a dormire, e dormì veramente poiché la respirazione, molto grave e sonora per la grossezza del corpo, era udita da tutti coloro che passavano davanti alla porta della sua camera. Ma il piano del cortile, a causa della grande quantità di cenere mista a pietre pomici da cui era stato riempito, si era talmente innalzato che lo zio, se fosse rimasto più a lungo nella camera da letto, non avrebbe potuto uscirne“.

La fuga da Stabiae

“Svegliato venne fuori e si unì a Pomponiano e agli altri che avevano trascorso tutta la notte senza chiudere occhio. Si consultarono se dovessero rimanere in casa o tentare di uscire all’aperto: infatti per frequenti e lunghi terremoti la casa traballava e dava l’impressione di oscillare in un senso o nell’altro come squassata dalle fondamenta. Stando però all’aperto v’era da temere la caduta delle pietre pomici, anche se queste sono leggere e porose. Alla fine confrontati i pericoli, fu scelto quest’ultimo partito. Prevalse in mio zio la più ragionevole delle due soluzioni, negli altri invece il più forte dei timori. Si misero dei cuscini sul capo e li legarono con fazzoletti: e questo servì loro per protezione contro le pietre che cadevano dall’alto”.

La furia del Vesuvio

“Mentre altrove faceva giorno, colà era notte, più oscura e più fitta di tutte le altre notti, sebbene fosse rischiarata da fiamme e bagliori. Fu deciso di recarsi alla spiaggia per vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma il mare era ancora pericoloso perché agitato dalla tempesta. Allora fu steso un lenzuolo per terra e mio zio vi si adagiò sopra, poi chiese più volte acqua fresca da bere. In seguito le fiamme e un odor di zolfo annunciatore del fuoco costrinse agli altri di fuggire e a lui di alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due schiavi, ma ricadde presto a terra“.

La morte di Plinio il Vecchio

“Secondo me, l’aria troppo impregnata di cenere deve avergli impedito il respiro ostruendogli la gola, che per natura era debole, angusta e soggetta a frequenti infiammazioni. Quando il giorno dopo tornò a risplendere (era il terzo da quello che egli aveva visto per l’ultima volta), il suo corpo fu trovato intatto, illeso, coperto dalle medesime vesti che aveva indosso al momento della partenza; l’aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d’un morto”. (Plinio il Giovane, lettera a Tacito).

Il lavoro di un’intera vita

Con quest’ultima straordinaria ricerca sulla conoscenza della natura, Plinio il Vecchio ci consegna la sua testimonianza più ardita, a completare un’intera vita di studio per la crescita scientifica e sociale di Roma e, più in generale, dell’essere umano. Lo fa sfidando la morte e scegliendo la sua ora scoccata nel culmine del suo lavoro. Lo fa, ancor di più, dando l’esempio più grande al nipote, investendo Plinio il Giovane di un’eredità e un testimone difficile da pareggiare. Ma, fondamentalmente, il grande Plinio scrive in questo drammatico e stupefacente evento che segnerà per sempre la storia italica, le ultime eroiche battute di vita alla quale, oggi, storici e intellettuali contemporanei non si possono minimamente paragonare.

Andrea Bonazza

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3 comments

Sergio Pacillo 24 Agosto 2022 - 10:15

La lettera fu scritta nel 107 d.C.

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Stessa spiaggia, stesso mare: Ercolano riscopre le sue origini pre-eruzione - 6 Febbraio 2023 - 11:32

[…] 79 d.C., violente nubi incandescenti che arrivavano fino a 400° e soffiavano a 80 km all’ora investirono […]

Reply
Ricercatori italiani risolvono un antico misterioso delitto in Sardegna - 24 Febbraio 2023 - 10:32

[…] grande storico romano, autore di quella che probabilmente è la prima opera enciclopedica completa, Plinio il Vecchio, ne descrisse dettagliatamente la prassi in Naturalis Historia. Secondo D’Orlando, questa cruda […]

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