Catania, 6 dic – Gli arabi lo chiamavano Jabal al-Nar (Montagna di fuoco) da cui deriva l’altro appellattivo, Mongibello, per il vulcano attivo più alto d’Europa: l’Etna (dal greco aitho “bruciare”).
Nella notte di giovedì scorso, 3 dicembre, la “montagna” si è risvegliata dalla sua bocca principale, chiamata Voragine dai vulcanologi. Il vulcano siciliano ha sempre avuto una attività pressoché costante: numerose sono state le eruzioni dai crateri sommitali Sec e Nec (South-East Crater e North-East Crater) negli ultimi decenni oltre all’attività lungo fratture eruttive apertesi lungo i fianchi dell’edificio vulcanico, ma la Voragine, che insieme alle Bn1 e Bn2 (le due Bocche Nuove) forma i crateri centrali dell’Etna, non faceva sentire la sua voce dal lontano 1999.
“Siamo davanti ad un evento storico” ci racconta l’esperto dell’Ingv di Catania “non solo perché un’eruzione dalla Voragine non avveniva dal 1999 ma perché 4 eruzioni consecutive da quella stessa bocca eruttiva non avvenivano da quasi 200 anni”.
Insomma lo spettacolo che ci ha fornito l’Etna in questi giorni, con l’imponente attività stromboliana (le fontane di lava) di giovedì notte che ha raggiunto un’altezza di 3 km dal margine craterico e ha generato una colonna eruttiva alta 7 mila metri, è qualcosa che con ogni probabilità vedremo una sola volta nella nostra vita.
Attualmente l’attività è ancora in corso, sebbene sia passata da quella esplosiva dei giorni scorsi a quella effusiva: una colata di lava sta infatti scendendo lungo la Valle del Bove, percorso preferenziale delle emissioni laviche dei crateri sommitali.
L’Etna è un vulcano “atipico” per genesi e possiamo dire che sia unico nel suo genere: difatti non si trova né su un punto caldo (come i vulcani hawaiani) né al di sopra di una zona di subduzione come per il vulcanesimo delle Eolie, del Vesuvio e di tantissimi altri vulcani che si trovano lungo la Cintura di Fuoco del Pacifico.
Infatti il vulcano siciliano si trova su quello che è definito geologicamente “prisma di accrezione” ovvero una particolare zona della crosta terrestre compresa tra due placche tettoniche convergenti sempre con una dinamica di subduzione. Secondo diversi ricercatori, tra cui Carlo Doglioni che è l’autore di questa teoria, si spiegherebbe con una particolare dinamica della crosta terrestre dell’area siciliana. Questa infatti, essendo sia di tipo continentale che oceanico, e quindi con due densità diverse (quella oceanica “più pesante” di quella continentale), durante il processo di subduzione si aprirebbe “a forbice” generando una profonda frattura della crosta, individuabile in quella che viene definita “scarpata di Malta” che richiamerebbe direttamente dal mantello i magmi che sono andati a generare l’edificio vulcanico etneo.
Difatti il chimismo delle lave dell’Etna è molto diverso da quello degli altri vulcani italiani, cosa che rende la sua attività meno pericolosa rispetto a quella del Vesuvio, che è caratterizzato da violente eruzioni di tipo esplosivo con la fuoriuscita di pericolose colate piroclastiche, anche dette nubi ardenti, le stesse che hanno provocato la distruzione di Pompei nel 79 dC.
Paolo Mauri