Roma, 17 gen – Il calo prezzi del petrolio sui mercati internazionali, dai 110 dollari al barile dello scorso giugno ai 47 dollari di metà gennaio, ha finalmente chiarito alcuni fondamentali meccanismi con i quali opera il gigantesco apparato industriale globale che presiede all’approvvigionamento della commodity più importante del mondo. Questo, a prescindere dalle cause scatenanti del ribasso, sulle quali non è la sede per addentrarsi ma che sempre più commentatori individuano semplicemente nella contrazione economica dei paesi più sviluppati, in particolare dell’area Ocse, nel rallentamento dell’economia cinese, oltre che nella volontà probabilmente un po’ miope dei grandi produttori, dall’Arabia Saudita agli stessi Usa, di non contenere l’estrazione per non perdere le relative fette di mercato.
Facendo seguito agli annunci di riduzione degli investimenti, abbandoni di esplorazioni ad alto costo, dolorosi tagli del personale, emessi dalle maggiori compagnie petrolifere, come ConocoPhillips, Bp, la norvegese StatOil, la Shell e la britannica Premier Oil, la grande stampa economica anche italiana ha preso atto che l’industria petrolifera necessita di prezzi molto più elevati di quelli correnti per sostenere i livelli produttivi.
Il grafico a fianco mostra il prezzo di pareggio (break even) del barile di petrolio necessario a sostenere il bilancio degli Stati responsabili della maggior parte della produzione mondiale, Usa esclusi. È evidente che nessuno di questi Stati è in grado di reggere nel lungo termine prezzi tanto bassi, richiedendo quasi tutti almeno 100 dollari al barile, mentre nel breve termine la sostenibilità è assicurata dalle riserve di valuta pregiata di paesi come l’Arabia Saudita, la Russia e ovviamente gli Stati Uniti.
In questo contesto e a livello di gruppi industriali, mentre la nostra Eni, grazie alla sua efficienza e a scelte lungimiranti, gode di un prezzo di pareggio medio pari a soli 45 dollari, la gran parte delle imprese del Regno Unito stanno soffrendo di pesanti insolvenze: Robin Allan, presidente dell’associazione di esploratori petroliferi Brindex, ha recentemente dichiarato alla BBC che l’industria è “vicina al collasso”, in quanto quasi nessun progetto nel Mare del Nord è redditizio con il petrolio al di sotto dei 60 dollari al barile.
La vittima più illustre e importante di questa fase di ribasso del petrolio, se dovesse sostenersi almeno per tutto il 2015, potrebbe però essere l’America, il cui boom del petrolio di scisto (shale oil) si regge su prezzi non inferiori a 80 dollari al barile, come evidente dal grafico a fianco. Un problema dell’estrazione del petrolio di scisto, che è comunque ancora attestata sui massimi valori storici, è infatti il rapidissimo esaurimento di singoli pozzi, che costringe a una frenetica e costosa attività di perforazione, il che richiede ampia liquidità e flussi continui di cassa.
Nei quadri a destra abbiamo rappresentato il prezzo del petrolio e il numero di impianti di perforazione (rig count) sia su base storica (1987-2015) sia nell’ultimo anno. Un fenomeno già autorevolmente osservato circa un mese fa, ma oggi molto più evidente, è il crollo delle perforazioni petrolifere negli Usa a partire dal novembre scorso, con alcuni mesi di ritardo rispetto all’inizio del collasso del prezzo del petrolio spiegabile con la normale inerzia industriale e decisionale, ma tendenzialmente ancora più rapido rispetto allo stesso trend dei prezzi e comunque molto più veloce rispetto alla diminuzione delle perforazioni osservata in occasione della crisi del 2008-2009.
Una misura, questa, molto rappresentativa dell’affanno che caratterizza l’industria del fracking americano, apparentemente confermando che il fracking americano è nient’altro che una bolla e non sposta di una virgola il trend declinante del petrolio.
C’è da chiedersi perché si sia arrivati alla necessità di estrarre risorse tanto difficili e costose, come il petrolio di scisto, le sabbie bituminose del Canada e del Venezuela, il petrolio in acque profonde nel golfo del Messico e al largo del Brasile, e perché –almeno prima dell’attuale deflazione petrolifera– si puntasse perfino alle risorse artiche, rendendo tanto pericoloso un elemento di economicità che a prima vista pare vantaggioso almeno per gli acquirenti finali.
La risposta proposta da numerosi analisti, impegnati da molto tempo a studiare il fenomeno petrolifero, è quello del cosiddetto picco del petrolio che, lungi dal significare esaurimento della risorsa, riguarda proprio la diminuzione della redditività delle esplorazioni e delle estrazioni e quindi l’aumento del prezzo che a sua volta comprime l’economia globale, innescando un circolo vizioso di cui oggi stiamo sperimentando la fase ribassista.
In effetti, il grafico a fianco dimostra come la produzione di petrolio dai pozzi convenzionali, eredità delle scoperte del secolo scorso, abbia toccato il picco nel 2004-2005, seguito da un lento declino, mentre la produzione complessiva è leggermente aumentata soltanto grazie a risorse e tecnologie non convenzionali, dai biocombustibili allo stesso fracking, e tutte più costose rispetto ai metodi di estrazione convenzionali, così che il prezzo marginale è aumentato fino ai livelli economicamente insostenibili e depressivi, culminati una prima volta nel luglio 2008 e quindi nel giugno 2014.
Per concludere, proponiamo uno schema molto semplificato ma, riteniamo, esplicativo dei meccanismi sopra illustrati; in particolare, il circolo vizioso legato alla fine delle risorse petrolifere a buon mercato, sommato alla spirale deflazionistica di natura prevalentemente finanziaria, rischia di provocare grossi e permanenti guai a economie già in sofferenza, richiedendo scelte coraggiose in tutti i campi energetici e dell’economia reale che le classi dirigenti attuali non sembrano in grado di adottare.
Francesco Meneguzzo
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[…] medio di estrazione del petrolio di scisto si colloca a 80 dollari per barile. Ancora più elevato secondo un altro studio, che colloca l’asticelli attorno ai 100 dollari. Almeno dai trenta in più rispetto alle attuali […]