Roma, 4 nov – Negli articoli dedicati a Caporetto si è ricordato come gli orgogliosi viennesi furono costretti, obtorto collo, a chiedere l’aiuto (che portò allo sfondamento di Caporetto) dei detestati prussiani. Una volta ritirate le truppe germaniche, le armate austroungariche attaccarono nel giugno 1918 prendendo una solenne legnata. Gli italiani avevano vinto l’esercito asburgico nella fase iniziale della battaglia d’arresto, facendo fallire i piani di sfondamento nella pianura veneta, e riconquistando il terreno perso il primo giorno dell’offensiva e senza neppur dover ripiegare nella zona trincerata di Treviso e della linea dei Colli. Appare ridicola la pretesa di alcuni autori austriaci quali il Krauss o il Pengow, che addussero a giustificazione dell’insuccesso la sola corrente impetuosa del Piave in piena in quei giorni, quasi che le duecentomila perdite delle armate di Conrad e Boroevich fossero dovute alla piena del fiume. D’altro canto il parere dei reduci imperiali e degli storici è ben diverso da quello di certi generali coinvolti nella disfatta, ma, come disse Auguste Blanqui, in altre terre gli inglesi hanno perduto molte volte la battaglia di Waterloo; altrove Bonaparte non ha sempre vinto a Marengo. Bisogna ricordare come il Comando Supremo avesse previsto uno sfondamento iniziale austriaco, anche per l’azione dei gas, come a Caporetto, ed un successivo arresto dell’offensiva nella zona trincerata di Treviso e della “linea dei Colli” imperniata su Marostica, Bassano, Asolo e Montello: a questa linea gli austriaci non arrivarono mai, realizzando successi iniziali molto più limitati persino rispetto alle previsioni italiane. La relazione francese sulla battaglia, stesa dal generale Henri Kervarec, riporta che la battaglia di giugno
Ha provato la superiorità dell’esercito italiano su quello austriaco, sia a livello di comando che dei soldati. Le truppe alleate che tennero il settore montano hanno certo giocato un ruolo importante in questa battaglia – ed il re Vittorio Emanuele ha reso loro piena giustizia. Ma lo sforzo maggiore è stato compiuto dalle truppe italiane, reclutate in ogni parte d’Italia, Veneto, Piemonte, Lombardia, Calabria, Sicilia etc. Il soldato italiano ha mostrato nel corso di questa battaglia le qualità tradizionali della razza, tenacia e ardore, con ostinazione romana nella difesa e entusiasmo patriottico nell’attacco. Il Comando Supremo ha dimostrato la propria capacità nel modo in cui ha sfruttato le ferrovie e le strade, e per come ha distribuito le proprie riserve e per come le ha impiegate al momento giusto nei punti minacciati. In una parola, il prestigio dell’esercito italiano, precipitato dopo Caporetto, è stato completamente riscattato.
E lord Cavan, comandante delle truppe britanniche in Italia, a sua volta, scrive nella propria relazione ufficiale:
Ovunque [il nemico] si trovò di fronte alla più determinata resistenza. Il Comando Supremo italiano aveva a disposizione ampie riserve, e affrontò la situazione con freddezza e determinazione.
Ovunque il nemico venne privato dei guadagni che aveva fatto (…)
Grazie ad una successione di vigorosi contrattacchi il nemico fu gradualmente respinto di nuovo sia sul Pieve che sul fronte montano.
Come risultato, non la linea del fronte originaria venne ristabilita, ma anche quella parte della riva destra del Piave, tra il Piave d il fiume Sile, che era in mani austriache sin dal Novembre del 1917, fu ripulita dal nemico.
Ordini e documenti catturati dimostrarono oltre ogni dubbio che i piani del nemico erano estremamente ambiziosi, e miranti, nei fatti, alla sconfitta definitiva delle forze alleate in Italia.
Il risultato fu per l’Austria una completa e disastrosa disfatta.
Riportiamo quanto scritto dai uno dei due Capi militari della Germania, il General Feldmarschall Paul von Hindemburg, che smentisce molte affermazioni sul fronte italiano, ristabilendo la verità circa l’importanza decisiva del fronte italo- austriaco nel quadro generale del conflitto:
La disgrazia del nostro alleato era una disgrazia anche per noi. L’avversario sapeva al pari di noi che l’Austria Ungheria aveva con questo attacco gettato tutto il suo peso nella bilancia della guerra. Da questo momento la Monarchia danubiana aveva cessato di essere un pericolo per l’Italia
come scrisse Hindemburg nelle proprie memorie[1]. Ecco il parere di Erich Ludendorff, che nel 1918 era de facto il dittatore militare della Germania imperiale:
Notizie più gravi sulle proporzioni della sconfitta austriaca ci giunsero nei giorni successivi.
L’Austria aveva riportata una sconfitta che poteva essere decisiva.
Non si poteva più fare affidamento sul trasporto di contingenti austro – ungarici sul fronte tedesco
Era dubbio che l’Austria stessa potesse resistere ad un forte attacco italiano. E se l’Austria cadeva, come avevamo ragione di temere, la guerra era perduta.
Per la prima volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta. Ci sentimmo soli.
Vedemmo allontanarsi tra le nebbie del Piave la vittoria che eravamo già sicuri di ottenere sul fronte francese.
Non mancai di comunicare all’imperatore Guglielmo che, a causa degli avvenimenti svoltisi sul fronte italiano, la partita si faceva molto difficile, che si correva il rischio di perdere la guerra, e che perciò era tempo di iniziare trattative per [ottenere] una pace accettabile[2]
Dopo il fallimento nella battaglia del Solstizio all’Austria Ungheria altro non rimaneva a che fare dell’attendere l’offensiva avversaria: oramai l’iniziativa strategica era passata definitivamente in mano italiana: la Duplice Monarchia ha cessato di essere una potenza europea.
A questa lunga, e criticata, inattività del Regio Esercito è bene dedicare una breve digressione.
Il non aver incalzato immediatamente gli imperiali in ritirata, aspettando sino ad ottobre, ha portato ad addossare al Comando Supremo numerose critiche d’inerzia e d’incapacità.
Quando il 24 Giugno Diaz annunzia la vittoriosa conclusione della battaglia dall’Astico al Sile, Vittorio Emanuele Orlando si pronuncia a favore di un prosieguo delle operazioni.
Il proprio parere Orlando lo esprime a Padova in una riunione con Diaz e Badoglio che ha luogo il 1 Ottobre.
E’ proprio Badoglio, dopo che il Capo di Stato Maggiore ha dichiarato di non potersi assumere la responsabilità dell’offensiva e dicendosi pronto alle dimissioni, a battere il pugno sul tavolo, esclamando all’indirizzo di Orlando: Allora dia l’ordine per iscritto!
E’ superfluo aggiungere che Orlando non lo fa: Quest’ordine non lo scriverò mai!
Badoglio assume un’aria disgustata, e conclude, tra l’ironico e lo scocciato: Ma allora, perché viene fin quassù a infelicitarci?
Del resto, lo stesso Orlando scrive a Diaz:
Mi mancano elementi per valutare tutta la grandezza dell’avvenimento, e soprattutto se esso abbia determinato un tale sfacelo morale nell’esercito nemico da rendere consigliabile non lasciargli prendere respiro. Mi affido completamente al senno di Vostra Eccellenza.
E questa è la risposta di Diaz:
Confermo che risultato battaglia, strategicamente difensivo ma audacemente offensivo nel campo tattico, si presenta come grande vittoria che ritengo debba avere larga ripercussione nel nemico. Sarebbe però, a mio convincimento, e come altre volte espressi, grave errore avanzare oltre il Piave con conseguente dannosa estensione nostro fronte, col grave ostacolo del fiume alle spalle; mentre la fonte di ogni nostro successo è stato l’opportuno schieramento e la concentrazione delle forze che ha consentito rapida ed efficientissima manovra. Oltre il Piave potrà operarsi, ove convenga, con piccole colonne volanti, allo scopo di disorganizzare il nemico. Tale concetto si armonizza pure con la situazione alla fronte nord, che non deve assolutamente sfuggire alla nostra vigile attenzione, per le minacce che possono addensarvisi e che importa ad ogni modo prevenire o parare. (…) A noi occorre vincere la guerra ed evitare di farci trascinare ad operazioni che potrebbero compromettere tale scopo essenziale.
Le truppe che hanno partecipato alla battaglia sono esauste; le sei divisioni della 1a Armata rimaste intatte non possono esser sufficienti per formare una massa d’urto in grado di ottenere una vittoria decisiva, e un successo parziale, nelle migliori previsioni, vorrebbe dire costituire- e mantenere- una testa di ponte con ingente dispendio di forze.
Le artiglierie italiane sono schierate in profondità, come si conveniva ad una sistemazione difensiva, e un loro spostamento in avanti richiederebbe molti giorni; e pattuglie di cavalleria e d’esploratori che hanno passato il Piave sono stati prontamente respinti da una difesa che si dimostra ancora eccellente.
Nonostante le pressioni inglesi- soprattutto da parte di lord Cavan- e francesi, Diaz si rifiuta di considerare un’offensiva prima dell’autunno.
Un’offensiva non si improvvisa: l’Austria, pur avendo cominciato i propri preparativi durante l’inverno, non è stata pronta per la grande offensiva contro l’Italia che a metà giugno.
A Diaz mancano poi in gran parte materiali da traghetto e da ponte, essenziali per la buona riuscita di un’offensiva, come ha dimostrato la crisi degli austriaci nella battaglia di giugno, allorché l’artiglieria e gli aerei italiani hanno distrutto barconi, ponti e passerelle, rendendo pressoché impossibile l’afflusso di rinforzi con i quali alimentare l’avanzata.
Il Comando Supremo si rende poi conto che un insuccesso finirebbe con l’annullare il risultato ottenuto con l’arresto dell’offensiva danubiana, anche psicologicamente, sia nei confronti della popolazione, del nemico e degli stessi Alleati.
La Nazione, con la vittoriosa battaglia difensiva sul Piave, s’è pienamente ripresa dallo choc di Caporetto. Non si può mettere in pericolo questa situazione morale favorevole, con un insuccesso eventuale derivato dal fallimento del forzamento del Piave che comporterebbe, come negli anni precedenti durante le offensive sull’Isonzo, perdite enormi senza alcun vantaggio sostanziale (ed è quello che avverrà il 24 ed il 25 ottobre alle truppe della 4a Armata di Giardino che attaccano sul Grappa).
La fanteria nemica – afferma in quei giorni il Sottocapo di Stato Maggiore Badoglio – è stata scompaginata, ma non le difettano i complementi; soprattutto la sistemazione difensiva sulla sinistra Piave è intatta, e intatto lo schieramento delle artiglierie. Se forziamo il fiume nelle condizioni in cui oggi ci troviamo, correremmo il gravissimo rischio di subire quella stessa crisi che ha imposto al nemico la ritirata.
L’esercito italiano invece difetta di complementi, ed esaurito il richiamo della classe del 1899 rimane oramai disponibile solo quella del 1900; non per nulla, dopo il Solstizio, il gen. Tettoni ispeziona, allo scopo di raschiare il barile, comandi ed uffici nella Penisola per trovare altro personale da impiegare in linea, disboscando uffici e distretti, riuscendo a snidare alcune decine migliaia d’imboscati (militari, ché gli operai delle industrie sono considerati necessari allo sforzo bellico e non arruolabili).
Né il maresciallo Foch che pure richiede in continuazione il passaggio all’offensiva, si degna di far tornare in Italia i 20.000 operai militarizzati italiani operanti nelle retrovie del fronte occidentale, e delle truppe americane richieste arriverà in autunno solo un reggimento sotto organico, rispetto ai due milioni di Doughboys inviati in Francia!
Questo per quanto riguarda la disponibilità a fornire uomini degli Alleati dell’Italia: si penserà addirittura a chiedere l’invio di un contingente giapponese per supplire alle carenze di truppe fresche, ma ovviamente non se ne farà nulla.
Al termine della battaglia del Solstizio sono disponibili ed intatte soltanto tre divisioni di cavalleria e sei di fanteria, ovvero due o tre corpi d’Armata, quanti quelli impiegati durante la battaglia sul solo Montello, e già dopo il 25 le truppe fresche sono impiegate nelle azioni di offensiva locale pianificate dal Comando Supremo sui Tre Monti, l’Asolone ed il basso Piave
Diaz pensa a ragione che l’offensiva debba essere decisiva e risolutiva: la controffensiva, pericolosa da affrontare con le forze residue, non potrebbe conseguire esiti decisivi, mentre l’esercito si logorerebbe inutilmente senza avere la possibilità di sostituire le perdite.
Non è esagerare il dire che Diaz, sapendo dominare l’entusiasmo derivante dalla vittoria, ha salvato probabilmente due volte l’Italia, con una moderazione rara in un vincitore.
L’offensiva, svoltasi tra il 24 ottobre e il 3 novembre 1918, segna la conclusione delle operazioni belliche sul fronte italiano nella Prima guerra mondiale con il definitivo successo della controffensiva italiana sul Piave.
La decisione del Comando Supremo di passare all’attacco risolutivo in direzione di Vittorio Veneto fu presa il 25 settembre. Le ragioni che guidarono alla scelta di una nuova direzione d’attacco furono, in sintesi: che si era giunti al punto che bisognava compiere uno sforzo decisivo; che la strategia di fare l’offensiva sull’altopiano di Asiago era invecchiata nella sua concezione e doveva essere oramai arcinota al nemico; che occorreva perciò scegliere un’altra direzione che consentisse un minimo di sorpresa e dovesse essere risolutiva, permettendo lo sviluppo della manovra.
La segretezza, per quanto fu possibile, si ottenne, tra l’altro, facendo credere che la preparazione italiana mirasse a fronteggiare una controffensiva nemica attraverso il Piave; tacendo alle armate che cedevano truppe e mezzi la destinazione di questi, indicando soltanto le stazioni di carico; dislocando le nuove unità affluite sul fronte verso l’altopiano come se dovessero operare lì; facendo gli spostamenti di notte; circondando il progetto di un tale riserbo tacendolo per due settimane persino al Governo.
Grazie all’aviazione che seppe assicurare il dominio del cielo durante l’intera preparazione, ed all’assoluta assenza di diserzioni italiane, il nemico non poté avere alcuna notizia diretta sui movimenti.
Il Comando Supremo aveva previsto che l’azione potesse avere inizio il 18 ottobre o poco dopo, ma le persistenti cattive condizioni del Piave imposero di prevedere una data più lontana, fissata per il giorno 24.
L’obiettivo strategico del comando italiano era quello di separare le forze austro-ungariche di Franz Conrad nel Trentino da quelle di Svetozar Boroevic sul Piave, con un’avanzata verso Vittorio Veneto. L’offensiva iniziò sul monte Grappa, ma le forti piogge impedirono l’attraversamento del Piave da parte delle truppe italiane. Il momento critico fu superato e il 28 ottobre gli aitaustriaci cominciarono a ripiegare sulla seconda linea di difesa. Il giorno successivo, dopo che nella notte tutte le truppe italiane erano passate sulla sinistra del fiume, alcuni reparti raggiunsero Vittorio Veneto.
Le linee maestre della battaglia sono bene descritte in una sintetica relazione compilata dal comando della VIII armata e trasmessa al Comando Supremo all’indomani stesso della vittoria, e che riportiamo:
Occorreva forzare il Piave con forti masse, poi puntare rapidamente su Vittorio per tagliare le retrovie della 6ª armata nemica e separarla dalla 5ª. Lo svolgimento della battaglia corrispose in tutto alle previsioni e gli avvenimenti si svolsero, nell’ambito del piano stabilito, secondo le manovre preordinate, non affidate alla fortuna degli eventi, ma guidate e condotte dalla volontà dei capi.
Nella prima fase: a sinistra il XXVII corpo, come si prevedeva, non poté forzare il fiume con passaggi propri. Lanciò allora le sue truppe ai ponti delle grandi unità laterali; rotti anche questi dalla violenza della corrente e dalle artiglierie nemiche si trovò al mattino del 27 con due soli reggimenti sulla sinistra separati dal resto del corpo d’armata.
Il XXII corpo al centro riuscì a gittare due ponti; distrutti e travolti, li rifece, e all’alba aveva sulla sponda sinistra la 1ª divisione d’assalto e parte della 57ª divisione. Queste truppe, in unione alla brigata Cuneo del XXVII corpo, si slanciarono sulle linee nemiche, le conquistarono, ma dovettero fermarsi, costituendo testa di ponte nella piana di Sernaglia, perché col giorno i ponti furono completamente stroncati e fu impossibile far passare al di là nuove forze per alimentare l’azione.
A destra l’VIII corpo era inchiodato sulla destra del fiume dai tiri implacabili delle mitragliatrici e precisi concentramenti delle artiglierie e più di tutto dalla violenza della corrente.
All’estrema destra la 10ª armata, più favorita dalla natura del fiume alle Grave di Papadopoli, era riuscita a costituire testa di ponte, ma non poteva oltre proseguire perché alle spalle delle prime truppe i ponti furono rotti dal nemico e dalla corrente.
All’estrema sinistra poche e valorose truppe della 12ª armata erano riuscite a passare e si mantenevano tenacemente nei pressi di Valdobbiadene. In questa situazione il comando della 8ª armata ordina al XVIII corpo di passare il fiume alle Grave di Papadopoli (10ª armata) e di puntare su Susegana per aprire la strada all’VIII corpo. La dislocazione del XVIII corpo era già stata fatta in previsione di questa eventualità.
Per tutto il giorno 27 le truppe che costituivano le tre teste di ponte di Valdobbiadene, di Sernaglia e di Cima d’Olmo, flagellate dalla pioggia, tagliate fuori dalle acque torbide e impetuose del fiume in piena, si batterono con indomabile tenacia opponendosi con disperata energia ai violenti ritorni offensivi del nemico.
Nella notte fra il 27 e il 28 si rinnovarono i tentativi per gittare i ponti sul fronte di tutta l’armata. Essi furono vani davanti al XXVII e VIII corpo, riuscirono in parte davanti al XXII che poté rinforzare le truppe di testa di ponte di Sernaglia con nuovi battaglioni.
La 10ª armata poté ampliare la sua occupazione sulla riva sinistra sebbene i suoi ponti fossero saltuariamente interrotti dalla corrente, ma il XVIII corpo non poté iniziare il passaggio se non nella notte sul 28 e a mezzogiorno solo la brigata Como e parte dalla Bisagno erano al di là del Piave. La felice scelta della direzione d’attacco unita allo slancio delle truppe (brigata Como) diede il tracollo alla resistenza nemica. Nel pomeriggio l’ostinata difesa davanti all’VIII corpo era crollata. Da questo momento il passaggio del Piave poteva dirsi forzato. Nella notte sul 29 i ponti furono nuovamente e definitivamente gittati. Nuovi battaglioni passarono: le teste di ponte da prima isolate si unirono, si trasformarono in una striscia continua densa di combattenti e di cannoni. Da essa partì sulle prime ore del 29 la marcia di sfondamento.
Mentre il XXVII corpo, conquistate le alture di Valdobbiadene, scalava, con la destra della 12ª armata, le montagne del Cesen e dell’Orsaria, il XXII, superato il cordone collinoso che sovrasta la pianura di Sernaglia, dilagava in Valmareno e risaliva verso Refrontolo. L’VIII corpo, finalmente libero, marciava su Vittorio, secondato a destra dal XVIII corpo e più a sud dalla 10ª armata in marcia anch’essa verso il Monticano.E’ questa la giornata decisiva che ci portò al raggiungimento dell’obiettivo essenziale, non solo per l’azione delle truppe fino allora impegnate, ma per tutto il nostro esercito.
Perduto Vittorio incomincia la disfatta nemica.
Così la manovra italiana si è svolta esattamente secondo le linee stabilite dal Comando Supremo. Il passaggio del Piave poté dirsi forzato quando, mercé la manovra del XVIII corpo opportunamente ordinata dal generale Caviglia ed eseguita, le truppe dell’8ª armata ebbero libero il passaggio al Ponte della Priula; da quel momento e da quel punto ha inizio la rottura della giunzione fra le armate austriache 5ª e 6ª e inizia l’avanzata nella direzione di Conegliano e di Vittorio Veneto.
Le forze italiane riuscirono a raggiungere Trento il 3 novembre e lo stesso giorno, via mare, anche Trieste. Il 4 cessarono le operazioni militari con l’entrata in vigore dell’armistizio. La battaglia costò alle truppe italiane circa 38.000 uomini, tra morti e feriti.
Pierluigi Romeo di Colloredo
[1] Paul von Hindemburg, Dalla mia vita, trad. it. Roma 1925, p.249.
[2]Lettera di Ludendorff al conte Lerchfeld del sette novembre 1919.
2 comments
La decisione di Diaz fu giusta ma solo fino all’8 di agosto, il “giorno più nero dell’esercito tedesco”.Quel giorno le truppe tedesche in Francia furono buttate indietro dalla Marna e persero la guerra.A quel punto bisognava attaccare e vincere noi la
guerra.Gli alleati infatti, che fino ad allora avevano premuto per una nostra offensiva, all’improvviso frenarono.Comincia allora la nostra tragedia di Versailles.Ma la decisione di attaccare doveva essere politica, non militare.Purtroppo, come altre volte nella nostra storia, la politica arrivò in ritardo sugli avvenimenti e ne pagammo un prezzo altissimo.
I Ragazzi del 99. Dovrebbero essere un esempio per le nuove generazioni: credere è volere. Volere crea potere di fare, di rinascere, di rinnovarsi. Lunga vita a loro nella memoria e nello spirito.