Roma, 14 mag – “Il Piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo l’educazione alla parità di genere, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni nelle scuole di ogni ordine e grado, al fine di informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti ed i genitori sulle relative tematiche come previsto anche dall’articolo 5, comma 2, del decreto legge 14 agosto 2013 n. 93 convertito nella legge 15 ottobre 2013, n. 199 in materia di Piano di azione straordinario contro la violenza”.
Si tratta del comma 8bis, all’Art. 2 che introduce l’insegnamento della parità di genere in tutti i curricola.
Si perché il 3 maggio, non a caso di domenica, approfittando del prevedibile assenteismo e rilassamento degli “attori”, Giovanna Martelli consigliere del presidente del Consiglio Matteo Renzi sulle Pari Opportunità, ha proposto un emendamento “gender”, sottoscritto da tutto il Pd, da inserire nel disegno di legge sulla riforma della scuola che attualmente è all’esame della VII Commissione cultura della Camera. Il Pd ha poi tentato di mischiare le carte occultando questa manovra facendola integrare nella super legge che dovrebbe mutare il volto della scuola. Mossa astuta.
Fortunatamente c’è chi su questi argomenti non abbassa la guardia, come le numerose associazioni (più di 40) che in risposta a questa manovra hanno consegnato al presidente Sergio Mattarella le oltre 180 mila firme raccolte per chiedere di fermare l’infiltrazione dell’ideologia genere nelle scuole italiane. Tra queste abbiamo i Giuristi per la vita e Provita Onlus che chiedono espressamente al Capo dello Stato di «intervenire, con la sua autorità giuridica e morale, presso gli organi competenti, affinché vengano presi i provvedimenti idonei» affinché sia rispettato il ruolo della famiglia nell’educazione dei più piccoli. Dopo Mattarella, le firme saranno presentate a Renzi e al ministro Stefania Giannini. Quest’ultima lo scorso anno aveva promesso che le associazioni dei genitori sarebbero state consultate e che le linee guida dell’Unar sarebbero state riscritte. Promessa che invece non è stata onorata.
Ok, i modi sono stati discutibili ma i contenuti sono ugualmente degni di un prestigiatore? Diciamo che a leggerlo non sembra esserci nulla di grave se non fosse che purtroppo abbiamo con il tempo appreso, che questi escamotage linguistici mirano a qualcos’altro. Si parla di “parità di genere” nelle scuole di ogni ordine e grado. Negli ultimi tre anni dopo il famigerato documento Miur/Unar, “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, sottoscritto dall’allora ministro del lavoro Elsa Fornero, sono stati resi applicativi attraverso la rete delle associazioni Lgbt folli programmi di cultura gender in tutta Italia finanziati, a suon di milioni, dallo stato.
Folli perché mirano a distruggere il maschile e il femminile in favore di un’autodefinizione che non rende conto del sesso biologico: ognuno può essere ciò che vuole, ciò che più gli piace. Inutile a dirsi che il Ddl Scalfarotto sulla fantomatica “omofobia” è il perimetro di garanzia entro cui si muovono tutte queste iniziative.
È in questo modo che si previene la “violenza omofobica” qualora mai esistesse questa emergenza? Infatti l’Oscad, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, istituito presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, nel 2013 ha reso noto che in 3 anni ci sono state 83 segnalazioni riguardanti l’orientamento sessuale: neanche 30 casi l’anno. Motivo per cui si fa fatica a credere che si tratti di una emergenza tale da essere affrontata con un apposito decreto di legge.
La collettività e non solo la famiglia, sta subendo un assedio plurimo da parte delle istituzioni e delle associazioni Lgbt tale da rintracciarne il carattere dittatoriale di tali iniziative. Si perché qui non c’è in ballo solo la protezione dell’istituzione della famiglia ma soprattutto il benessere psicologico dei bambini che saranno confusi, immersi in questo frullatore gender. Infatti le pratiche di queste ideologie sono destabilizzanti e non permettono al bambino un sano sviluppo della personalità: viene minata la sicurezza e messa a rischio l’identificazione sessuale.
E poi, mai come in questo periodo ci dicono di “guardare l’Europa”, per imparare e migliorarci. E allora sarebbe opportuno porre attenzione a quanto successo in Norvegia, paese che negli ultimi dieci anni ha sostenuto fortemente le teorie del gender. Infatti, dal punto di vista normativo donne e uomini, in questo paese, sono liberi di comportarsi in maniera completamente uguale ma diversi studi, però, hanno messo in luce il Norwegian Gender Paradox, il paradosso norvegese del gender : nonostante ci sia piena “uguaglianza” tra i due sessi, il paradosso dimostra che le donne continuano a scegliere professioni tradizionalmente viste come “femminili” e gli uomini quelle tradizionalmente “maschili”.
Ad esempio il 90% delle infermiere norvegesi sono donne e il 90% degli ingegneri uomini. Il comico e sociologo norvegese Harald Eia viaggiando tra Stati Uniti e Gran Bretagna e visitando alcune delle università più prestigiose al mondo ha incontrato numerosi ricercatori di psicologia, medicina e sociologia che gli hanno presentato esperimenti e indagini che dimostrano scientificamente che la differenza fra sessi è documentabile fin dai primi giorni o mesi di nascita.
Ad esempio il prof. Simon Baron-Cohen, membro del Trinity College, è giunto a dimostrare che esistono caratteristiche innate e differenti nei cervelli di neonati maschi e femmine e che queste differenze sono dovute anche alla quantità di testosterone prodotto. E ancora il prof. Trond Diseth, dell’Oslo University Hospital ha elaborato uno studio con bimbi che presentano malformazioni genitali, dal quale emerge che le scelte dei bambini riguardo i giocattoli riscontrano differenze tra maschi e femmine fin dall’età di nove mesi. Per questi motivi, vista anche l’incapacità degli esponenti della gender theory di fornire spiegazioni scientifiche per la loro linea di pensiero, il consiglio dei ministri dei paesi nordici (Nordic Council of Ministers) ha deciso di tagliare i fondi al Nordic Gender Institute, provocandone la chiusura.
L’intolleranza e la violenza, derivata da qualsiasi fattore, come anche dalla disabilità, va affrontata con programmi che mirano a favorire lo sviluppo delle competenze sociali nei bambini e nei ragazzi e non tramite insegnamenti orientati all’indefinitezza del genere, aldilà del carattere sessuato degli individui e soprattutto senza rispettare il ruolo dei genitori che restano, come garantito dalla l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, gli unici responsabili dell’educazione dei figli.
Marta Stentella