Roma, 16 giu- A smentire chi dice che gli italiani non sono “brava gente” sta la storia della Somalia. A cominciare da un dato incontrovertibile: il Trattato di Parigi del 1947 e l’ONU ne assegnarono l’amministrazione fiduciaria, nel cammino verso l’indipendenza, alla ex madrepatria italiana, su pressione degli stessi somali, che per diversi anni dal 1941 in poi ebbero a fare la sgradita e sgradevole esperienza di vivere come sudditi dell’Impero di Sua Maestà britannica.
La decisione dell’ONU è (o dovrebbe) essere fonte di attente riflessioni: se davvero l’Italia nella sua breve storia coloniale è stata un tale campione di pratiche barbare ed inumane, per quale strano motivo i somali chiesero di riavere a capo della cosa pubblica i loro truculenti carnefici?
La storia dell’Italia in Somalia è in realtà complessa e risalente: essendo state ben presto le mire governative sulla Tunisia (dove risiedevano numerosi gli italiani) frustrate dalla feroce opposizione franco-britannica, si iniziò a guardare più a Sud: nel 1882 venne acquistata la Baia di Assab dalla Compagnia Marittima Rubattino (la stessa che fornì a suo tempo i due piroscafi necessari a Garibaldi per sbarcare in Sicilia), e tra il 1885 e 1889 si stipularono i primi accordi commerciali con i sultani di Zanzibar e della Migiurtinia che portarono l’Italia a muovere i primi passi nella regione, e a fare della Somalia un protettorato.
Da allora la crescita del Paese fu costante, anche grazie alla sua posizione strategica nel Corno d’Africa, che ne faceva una zona di scalo privilegiata: tra gli anni 10 e 30 Mogadiscio divenne la città più importante del Corno, meta di investimenti italiani e non, con ospedali, scuole e strutture pubbliche di prim’ordine. Lebbra e sifilide vennero debellati. Il Duca degli Abruzzi creò un imponente comprensorio agricolo sulle rive dello Uebi Scebeli (il famoso Villaggio “Duca degli Abruzzi”, la cui denominazione restò tale fino alla fine degli anni Cinquanta), collegato alla capitale da una nuova linea ferroviaria. Sorsero piantagioni di caffè e banane nella zona del Giuba. Le truppe coloniali somale, i famosi “turbanti bianchi” (Dubat) furono soldati ben disciplinati di molti superiori per affidabilità e valore alle truppe coloniali delle altre potenze europee, impiegati insieme agli Ascari eritrei in tutti gli scenari di guerra africani.
Per far capire meglio quale era lo spirito con cui gli italiani vissero la loro esperienza africana, e quali le differenze rispetto all’idea di ”colonia” delle altre potenze europee, anche se non riferite propriamente alla Somalia, basta leggere le pagine di Evelyn Waugh, britannicissimo cronista e scrittore che seguì la guerra di Etiopia come corrispondente dal lato abissino: “L’idea di conquistare un Paese per andarci a lavorare, di trattare un impero come un luogo dove bisognava portare delle cose, un luogo che doveva essere fertilizzato, coltivato e reso più bello, invece di un luogo da cui le cose era possibile portarsele via, un luogo da depredare e spopolare; l’idea di lavorare come schiavi invece di starsene sdraiati ad oziare come padroni- tutto questo era completamente estraneo ai loro pensieri (degli inglesi). E invece è il principio che sta alla base dell’occupazione italiana. E’ una cosa nuova in Africa, anzi è una cosa che non si è mai vista da nessuna parte negli ultimi duecento anni, tranne che negli stati Uniti d’America. La colonizzazione inglese è sempre stata l’espansione della classe dirigente. (…) Ma l’occupazione italiana dell’Etiopia è l’espansione di un popolo. E’ cominciata con l’annessione di fonti potenziali di ricchezza, ma non è un movimento capitalistico come l’occupazione britannica delle miniere d’oro in Sudafrica. E’ accompagnata dalla diffusione dell’ordine e di regole civili, dell’istruzione e della medicina in un luogo squallido.”
Poi venne la guerra e l’occupazione inglese: la ferrovia che collegava il Villaggio Duca degli Abruzzi a Mogadiscio venne smantellata, le malattie tornarono a prosperare, la crescita delle strutture amministrative e sanitarie si bloccò, complici anche le esigenze belliche britanniche. Nel 1950 l’Italia, su richiesta delle Nazioni Unite, ritornò in Somalia. E dopo dieci anni fu consegnata al nuovo governo somalo, guidata da Aden Abdullah, primo presidente somalo e grande amico di Roma, una macchina burocratica pressochè perfetta.
Oggi conosciamo molto bene la situazione somala, la crisi profondissima e le lacerazioni che devastano il Paese, preda di jihadisti e bande di pirati. Ma che non si addebiti lo status quo all’Italia. O meglio si: la colpa fu l’abbandonare troppo rapidamente una Nazione ancora giovane e instabile, che ancora oggi, insieme con l’Eritrea, rimpiange l’Italia. Testimoni ne sono i soldati italiani che, quando parteciparono alla missione di peace keeping nel 1992 a Mogadiscio si videro comparire innanzi vecchietti incartapecoriti dal sole e dagli anni che un tempo erano statti soldati italiani e che pretendevano di riprendere servizio ora che “l’Italia era tornata”.
Ancora di recente l’attuale Presidente somalo in una intervista alla Stampa, ha lanciato un appassionato appello:” siamo di nuovo qui, dopo 22 anni torniamo in Italia e guardiamo a voi italiani e al vostro governo perchè ci appoggi. Nessuno è nella condizione e nella posizione migliore per aiutarci. Questo grazie alla conoscenza, al legame culturale e a quello storico che ci lega. Oggi l’Italia può di nuovo tornare a ricostruire lo stato somalo, così come è stata l’Italia ad aiutarci a crearlo 60 anni fa. C’è una nuova possibilità e vi chiediamo di farlo, per dar modo ai somali di risollevarsi”.
Non l’abbandono di un Continente a cui siamo così legati sarà la strada per permettere a tali Nazioni di risollevarsi, né la fittizia accoglienza di decine di migliaia di sbandati in nome del politicamente corretto è la soluzione. La soluzione è tornare. E ricostruire, per il bene di tutti, come già sottolineato, peraltro, sulle pagine de Il Primato Nazionale.
Valentino Tocci