Londra, 23 gen – Nell’Aprile del 2011 entrava in vigore in Gran Bretagna una legge chiamata “Equality Act”, che rimpiazzava una serie di leggi relative alla protezione delle minoranze etniche e religiose da discriminazioni di ogni genere. Tutte le leggi precedenti erano nomate “Race Relation Act” (evidentemente, almeno sino al 2010 il Governo di Sua Maestà riconosceva esplicitamente le diversità e si preoccupava di regolare i rapporti tra le variegate comunità che in maniera sempre più massiccia ingrossavano il corpo sociale Britannico). La prima legge regolante le “relazioni tra razze” è del 1965, cioè quando le tensioni razziali cominciarono ad essere un problema diffuso in tutto il Regno e particolarmente nelle zone industriali e nella capitale Londra. Nel dopoguerra infatti era iniziata un’immigrazione massiccia di neri dalle colonie o ex colonie caraibiche (Jamaica in testa) e dall’India, a ritmo di circa 75,000 ingressi all’anno. Immigrazione favorita sin dagli anni immediatamente successivi all’ultimo conflitto mondiale prima per fornire mano d’opera necessaria alla ricostruzione post-bellica poi successivamente per la forza lavoro necessaria a trainare il boom economico di fine anni 50 / primi 60. Quindi nel giro di una quindicina d’anni, cioè quando la prima generazione di figli di immigrati entrò con numeri significativi nel sistema scolastico, iniziarono i problemi seri e diffusi.
Il quartiere di Notting Hill, oggi tanto di moda, con i prezzi degli immobili tra più cari al mondo e quindi abitato da persone piuttosto agiate, era all’epoca un quartiere abitato quasi esclusivamente da emigrati delle West Indies (come venivano chiamati i Caraibi) e molto poco raccomandabile (i neri dagli anni 80 in poi, quando ci furono tra l’altro una serie di pesanti rivolte razziali, se ne sono andati: un primo esempio della cosiddetta “gentrification”). Le città industriali tipo Birmingham videro salire progressivamente le tensioni e gli episodi di intolleranza e violenza tra i nuovi arrivati e la cosiddetta “white working class” locale. Fu li che si cominciò a legiferare in materia, cercando fondamentalmente di ridurre i danni, mantenere l’ordine mentre si continuava ad importare mano d’opera a basso costo perché come tutti sappiamo i problemi di convivenza e relazioni tra gruppi etnici così diversi c’erano e ci sono tutt’oggi. Prova ne è il fatto che l’ultima legge è la quinta dal 1965, considerando anche degli emendamenti importanti apportati nel 2000 a quella del 1976.
La legge in vigore è dell’Ottobre del 2010, varata quindi dal governo Laburista di Gordon Brown ed entrato in vigore sotto il gabinetto Cameron. Senza entrare nei tecnicismi e nei confronti con le leggi precedenti, la cosa da notare è che i politici tutti si premuravano di sottolineare è che questa legge non approvava la “discriminazione positiva” (ovvero, per esempio, in caso di assunzione il fatto di preferire un esponente di una minoranza etnica con esperienza o capacità professionali inferiori ad un candidato bianco solo per il suo “essere minoranza”) ma istituiva la cosiddetta “azione positiva”: cioè a parità assoluta di qualità dei candidati (ma anche qui chi decide?) è preferibile assumere il candidato di una comunità etnica non autoctona. Questo perché se l’ipotetica azienda non dimostra nei fatti di aderire alla politica egalitaria imposta può essere esposta sia ad azioni legali dei singoli che si possono sentire discriminati (e qui la nuova legge fornisce tutti gli strumenti per appigliarsi anche al più tenue argomento), sia alla denuncia da parte delle numerosissime associazioni anti-discriminazione, per tacere delle campagne mediatiche che si scatenano ad ondate costanti.
Un esempio classico è l’accusa costante e reiterata alla Metropolitan Police Londinese di essere intrinsecamente razzista, perché, almeno sino a poco tempo fa, i suoi componenti soprattutto nelle posizioni apicali erano maschi bianchi. Quindi, per politici e giornalisti della sinistra Labour, ma non solo, non si poneva neanche la questione che magari per motivi culturali, per attitudine personale, perché fossero più bravi nei test di ammissione o semplicemente perché ambissero più di altri a fare il poliziotto, i bianchi prevalessero sugli altri. No, era un problemone foriero di tensioni razziali che andava risolto. E allora si è fatto di tutto per favorire l’ingresso nelle forze dell’ordine di ogni tipo di minoranza, campagne mediatiche martellanti e facilitazioni di ogni genere. L’ultimo colpo di genio del 2014 (sotto l’amministrazione del sindaco Boris Johnson, conservatore) è stato quello di reclutare solo tra cittadini che avessero vissuto a Londra per tre degli ultimi sei anni, annunciando esplicitamente che ciò veniva fatto contando sul fatto che la popolazione di Londra è composta per il 40% da esponenti di minoranze etniche. E ovviamente ciò ha dato i suoi frutti, come annunciava trionfalmente nel 2015 lo stesso sindaco uscente: si era passati da un quarto ad un terzo della forza composta da BME (acronimo che significa Black & Ethnic Minorities).
Peccato che nel frattempo, i crimini nella capitale (ora sotto la guida di Sadiq Khan, di origini pakistane; un ottimo esempio di integrazione, in teoria) sono aumentati in maniera esponenziale. O che recentemente il capo della polizia londinese Cressida Dick (donna e omosessuale: i radical chic di Channel 4 o del Guardian non potevano sperare di meglio) ad una conferenza stampa di fronte ad una domanda sull’emergenza delle “rape gangs” asiatiche, ovvero bande di uomini provenienti dall’Asia centrale che stuprano e riducono in schiavitù prevalentemente ragazze bianche spesso con situazioni personali o familiari difficili, abbia liquidato la questione dicendo che il problema di questo tipo di organizzazioni esiste in gran Bretagna da secoli. Lasciando tutti tra l’esterrefatto ed il basito, ovviamente non fornendo esempi concreti (anche perché inesistenti, rapportati alle dinamiche specifiche dell’allarme odierno) ma evitando di ammettere che c’è un problema. Grande. E, purtroppo, questo è legato al fallimento sempre più evidente del modello melting pot che ci si ostina a voler imporre con i risultati che stiamo vedendo e vivendo sulla nostra pelle quotidianamente.
Davide Olla
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