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Tripoli, 17 lug – Non solo El Alamein, non solo fanti, aviatori e marinai, a Tripoli c’è un cimitero che raccoglie i resti di 7800 italiani che vivevano in quella che dal 1912 al 1947 è stata una nostra colonia. Ora, con l’Isis le spoglie mortali dei nostri connazionali rischiano di venire profanate, anzi, rischia di venire cancellata ogni traccia di quell’ultimo camposanto italiano dopo che il governo di Gheddafi, quando salì al potere, fece rimpatriare le salme di altri 28mila italiani.
A dare l’allarme è lo storico custode del cimitero di Hammangi, Bruno Dalmasso.
Bruno è sempre rimasto al suo posto: sotto i bombardamenti della Nato, tra colpi di stato e rivolte, ma ora minacciato delle truppe dell’Isis è dovuto rimpatriare: “Portiamoli via, in Italia- dice Dalmasso – Non è neanche tanto difficile. I resti sono in piccole cassette che possono venir stivate nei container. Altrimenti non resterà più nulla”. Il veterano ottantunenne che ora vive in provincia di Imperia prosegue nel suo tragico racconto: “Dalla capitale libica mi hanno informato che un mese fa quelli con le barbe lunghe hanno sfondato il muro entrando nel cimitero con un bulldozer. Lo hanno profanato e devastato già due volte. Prima i ladri e adesso gli islamici”.
Precedentemente il governo di Gheddafi aveva fatto levare il crocefisso posto all’ingresso della parte monumentale del cimitero, voluto da Paolo Caccia Dominioni, il reduce della Campagna d’Africa che tanto si prodigò nel dopoguerra per dare riposo alle innumerevoli salme dei nostri connazionali, anche a quelle inglesi, nel deserto, in quei luoghi dove si svolsero i cruenti combattimenti che vanno sotto il nome di battaglia di “El-Alamein”. A lui infatti, si deve la costruzione dell’edifico posto a presidio di “quota 33” oltre che, ovviamente, del cimitero della località litoranea egiziana da cui ha preso il nome la battaglia.
Ora però con i miliziani dell’Isis alle porte, il rischio che il cimitero venga, non solo profanato, ma addirittura cancellato coi bulldozer, come avvisa lo stesso Dalmasso, è reale: oltre alla comparsa di scritte inneggianti ad Allah le croci del cimitero sono state tutte spezzate e diverse cassette profanate. Fortunatamente la lapide marmorea della tomba di Italo Balbo (la cui salma è stata portata in Italia nel 1970 e ora riposa ad Orbetello insieme alle spoglie dell’equipaggio del suo ultimo fatale volo) è stata riportata in Patria allo scoppio della guerra civile, imbarcata sull’ultimo C-130 “Hercules” decollato per Roma, come in un ultimo romantico addio a quella terra d’Africa che ha dato i natali a tantissimi nostri connazionali (nel 1939 erano 108mila scesi a 35mila nel 1962).
Da più parti si levano voci per il ritorno dei resti in Italia, sia Giancarlo Consolandi dell’Associazione ex Allievi delle Scuole Cristiane in Libia, che Giovanna Ortu, presidente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, auspicano che il Governo attui una sorta di “blitz” per prelevare le salme. Ci sarebbe anche un precedente, come ricorda Alfredo Mantica ex sottosegretario agli Esteri: a Mogadiscio i Servizi Segreti riuscirono a rimpatriare con pochi soldi le salme degli italiani dopo che le corti islamiche devastarono il nostro cimitero.
Forse provocatoriamente, ma nemmeno troppo, riteniamo che quei resti debbano restare lì dove sono: non devono ritornare i morti in Italia, sono i vivi, noi italiani, che devono ritornare in Libia, per riappropriasi di quanto abbiamo perso con lo scellerato intervento Nato, ma soprattutto per pacificare la nostra vecchia “quarta sponda” e porre fine al commercio di esseri umani in mano sia all’Isis che alle mafie locali, che quotidianamente, con la complicità delle varie operazioni navali succedutesi sino ad oggi, sta facendo aumentare in modo vertiginoso il flusso di immigrati in Italia.
Paolo Mauri
Tripoli, 17 lug – Non solo El Alamein, non solo fanti, aviatori e marinai, a Tripoli c’è un cimitero che raccoglie i resti di 7800 italiani che vivevano in quella che dal 1912 al 1947 è stata una nostra colonia. Ora, con l’Isis le spoglie mortali dei nostri connazionali rischiano di venire profanate, anzi, rischia di venire cancellata ogni traccia di quell’ultimo camposanto italiano dopo che il governo di Gheddafi, quando salì al potere, fece rimpatriare le salme di altri 28mila italiani.
A dare l’allarme è lo storico custode del cimitero di Hammangi, Bruno Dalmasso.
Bruno è sempre rimasto al suo posto: sotto i bombardamenti della Nato, tra colpi di stato e rivolte, ma ora minacciato delle truppe dell’Isis è dovuto rimpatriare: “Portiamoli via, in Italia- dice Dalmasso – Non è neanche tanto difficile. I resti sono in piccole cassette che possono venir stivate nei container. Altrimenti non resterà più nulla”. Il veterano ottantunenne che ora vive in provincia di Imperia prosegue nel suo tragico racconto: “Dalla capitale libica mi hanno informato che un mese fa quelli con le barbe lunghe hanno sfondato il muro entrando nel cimitero con un bulldozer. Lo hanno profanato e devastato già due volte. Prima i ladri e adesso gli islamici”.
Precedentemente il governo di Gheddafi aveva fatto levare il crocefisso posto all’ingresso della parte monumentale del cimitero, voluto da Paolo Caccia Dominioni, il reduce della Campagna d’Africa che tanto si prodigò nel dopoguerra per dare riposo alle innumerevoli salme dei nostri connazionali, anche a quelle inglesi, nel deserto, in quei luoghi dove si svolsero i cruenti combattimenti che vanno sotto il nome di battaglia di “El-Alamein”. A lui infatti, si deve la costruzione dell’edifico posto a presidio di “quota 33” oltre che, ovviamente, del cimitero della località litoranea egiziana da cui ha preso il nome la battaglia.
Ora però con i miliziani dell’Isis alle porte, il rischio che il cimitero venga, non solo profanato, ma addirittura cancellato coi bulldozer, come avvisa lo stesso Dalmasso, è reale: oltre alla comparsa di scritte inneggianti ad Allah le croci del cimitero sono state tutte spezzate e diverse cassette profanate. Fortunatamente la lapide marmorea della tomba di Italo Balbo (la cui salma è stata portata in Italia nel 1970 e ora riposa ad Orbetello insieme alle spoglie dell’equipaggio del suo ultimo fatale volo) è stata riportata in Patria allo scoppio della guerra civile, imbarcata sull’ultimo C-130 “Hercules” decollato per Roma, come in un ultimo romantico addio a quella terra d’Africa che ha dato i natali a tantissimi nostri connazionali (nel 1939 erano 108mila scesi a 35mila nel 1962).
Da più parti si levano voci per il ritorno dei resti in Italia, sia Giancarlo Consolandi dell’Associazione ex Allievi delle Scuole Cristiane in Libia, che Giovanna Ortu, presidente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, auspicano che il Governo attui una sorta di “blitz” per prelevare le salme. Ci sarebbe anche un precedente, come ricorda Alfredo Mantica ex sottosegretario agli Esteri: a Mogadiscio i Servizi Segreti riuscirono a rimpatriare con pochi soldi le salme degli italiani dopo che le corti islamiche devastarono il nostro cimitero.
Forse provocatoriamente, ma nemmeno troppo, riteniamo che quei resti debbano restare lì dove sono: non devono ritornare i morti in Italia, sono i vivi, noi italiani, che devono ritornare in Libia, per riappropriasi di quanto abbiamo perso con lo scellerato intervento Nato, ma soprattutto per pacificare la nostra vecchia “quarta sponda” e porre fine al commercio di esseri umani in mano sia all’Isis che alle mafie locali, che quotidianamente, con la complicità delle varie operazioni navali succedutesi sino ad oggi, sta facendo aumentare in modo vertiginoso il flusso di immigrati in Italia.
Paolo Mauri