Roma, 13 ago – Diritti civili e “politica senza rancore”. Così, due giorni fa, Repubblica raccontava la svolta rappresentata da Kamala Harris, prima donna afroamericana candidata come vicepresidente degli Stati Uniti. Ah quanto piace Kamala, su omnia media di sinistra è tutto uno scintillar di stelle filanti, sviolinate e aerofoni tripudi di flauti dolci. Questo sì che è un profilo come si deve per esaltare la public opinion eletta a civil society degli States. Emoziona tutti Kamala, spruzzata briosa per scuotere quel sornione in là con gli anni di Joe Biden. Ci provi adesso The Donald a sfottere, questa è una tigre pronta ad azzannare la scomposta criniera del leone platinato. Altro che “Sleepy Joe”, la rabbiosa voce della piazza Blm adesso ha trovato il megafono istituzionale. Par di assistere a un trescone boccaccesco in salsa eco-friendly, ordunque posate il fiasco e svegliatevi dal sonno ubriaconi, qua si balla sul serio.
Presente: Obama al femminile
Eppur muovendosi, tra un giubilo e l’altro, qualcuno inizia sommessamente a rimembrar. Sì perché sfrucugliando bene nel cassetto dei ricordi, saltan fuori ombrose fotografie di una tiger woman versione “top cop”, così come taluni chiamavano la sorridente Kamala. Insomma chi è davvero la candidata perfetta alla vicepresidenza che sta oscurando l’improbabile sfidante di Trump? Di madre indiana, immigrata negli Usa da Chennai (già coloniale Madras), e padre di origine giamaicana, vista la linea materna più che afroamericana era conosciuta ai più come asioamericana. Dettagli, obiettivamente trascurabili. Accontentiamoci della definizione azzardata da qualche commentatore: “Obama al femminile”. Perciò, sintetizzando, portatrice massima dei classici punti democratici. Difatti Kamala si schiera con Black lives matter (scendendo pure in piazza al fianco dei manifestanti) e si scaglia contro gli abusi della polizia. E poi sì avanti con la riforma sanitaria (mai realmente attuata dai dem) e i diritti civili, degli omosessuali, delle minoranze etniche e via e via.
Passato: odiato sceriffo
Benone, peccato che non tutto il popolo di sinistra, quello buono e giusto per intendersi, sia così entusiasta dell’Obama in rosa. Eh no, qualcuno sommessamente sta facendo notare che l’ineffabile Kamala ha subito un’improvvisa conversione sulla via di Seattle, o del politicamente corretto che dir si voglia. Come mai? Perché, neanche fosse un Cofferati con opposta deriva, in realtà molti la ricordano con un gentile soprannome: la “sceriffa”. Eh sì, perché Kamala non era poi così progressista. Dal ricorso contro una sentenza di un tribunale che giudicò incostituzionale la pena di morte, alla bocciatura dell’obbligo di body cam sulle uniformi della polizia di Stato, fino al suo celebre niet alle operazioni di cambio di sesso richieste dai detenuti transgender. Gli antirazzisti più intransigenti hanno inoltre accusato Kamala di aver penalizzato la comunità nera. E pure il quotidiano progressista per eccellenza, il New York Times, la accusò di essere stata troppo spesso “dalla parte sbagliata della storia” in un articolo del 17 gennaio 2019 firmato da Lara Bazelon, docente di legge californiana. Ah, quanto non piaceva Kamala.
Eugenio Palazzini
4 comments
“Qualcuno” a casa nostra riteneva l’ indice puntato segno di volgarità, cattiveria e incapacità di controllo.
Kamala Harris…, appare una pelosa senza scroto.
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