Riyad, 15 mag – In un gioco condotto sul filo del bluff, mentre tutti i complottisti del mondo si univano al coro dell’attacco concertato saudita-americano alla povera Russia nel tentativo di amplificare l’effetto delle sanzioni attraverso la diminuzione degli introiti del petrolio, in realtà i sauditi stanno accoltellando alla schiena lo zio Sam.
“Non c’è alcun dubbio, il crollo dei prezzi del petrolio avvenuto nei mesi scorsi [da settembre 2014] ha allontanato gli investitori dal petrolio più costoso, incluso quello di scisto americano [meglio definito ‘petrolio leggero compatto’ (LTO)], quello estratto da mari profondi e gli oli pesanti [da sabbie bituminose dell’Alberta in Canada e della foce dell’Orinoco in Venezuela]”, ha dichiarato un ufficiale Saudita al Financial Times, fornendo una rara occasione di conoscere il punto di vista interno al regno saudita sulla relativa strategia petrolifera.
In effetti, la strategia Opec, guidata da Riyad e decisa lo scorso novembre, di non allentare i ritmi produttivi nonostante il crollo dei prezzi dovuto al calo della domanda e seguito a quasi tre anni di valori sostenuti, stabilmente oltre i 100 dollari al barile, pare aver dato i suoi frutti, almeno per il LTO americano, che ha visto prima iniziare il tracollo delle esplorazioni (da novembre scorso), quindi – da metà marzo 2015 – la stagnazione della produzione, confermata dagli ultimi dati settimanali e possibile segnale di un imminente declino, come previsto anche dall’ultimo rapporto dell’agenzia internazionale per l’energia (IEA) nel suo ultimo rapporto di mercoledì scorso.
La stessa IEA riconosce tuttavia che è presto per dire che l’Opec, e l’Arabia Saudita in testa, abbiano già vinto la battaglia per le quote di mercato, in virtù dei recenti aumenti della produzione brasiliana, nonostante il costo delle estrazioni da acque profonde, così come da altri paesi Opec come Iran e Iraq.
In ogni caso, l’ufficiale saudita confidente del Financial Times ha aggiunto di ritenere che il regno manterrà il proprio dominio sullo scacchiere energetico globale: “L’Arabia Saudita intende estendere l’era del petrolio, che vogliamo continui a essere utilizzato come la principale fonte di energia, di cui noi vogliamo essere il maggior produttore”, terminando con una previsione: “Il prezzo del petrolio ha toccato il fondo e non è verosimile che si rilanci presto”.
I commenti da Riyad arrivano mentre il settore petrolifero saudita sta attraversando una fase di grandi cambiamenti, sia a livello ministeriale, con l’ormai storico ministro Ali Al-Naimi in bilico, sia alla Saudi Aramco, la potentissima compagnia petrolifera statale, che molti osservatori mettono in relazione con l’ascesa al trono, lo scorso gennaio, di Re Salman.
Lo stesso nuovo sovrano, Salman appunto, che con una mossa quasi senza precedenti ha declinato l’invito del presidente Usa Barack Obama per un fine settimana a Camp David, insieme ai leader degli altri paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), il club esclusivo formato da Bahrain, Oman, Emirati Arabi Uniti (Eau), Qatar, Kuwait e ovviamente Arabia Saudita e da alcuni accusato di essere stato l’attore esterno principale dietro il conflitto siriano, per discutere la sicurezza regionale e altre questioni. E Re Salman si trova nella buona compagnia dei leader di Oman ed Emirati Arabi Uniti, che pure spediranno in America ministri e funzionari, e soprattutto del Re del Bahrain, Hamad bin Isa al-Khalifa, che ha preferito recarsi allo show equino della Regina Elisabetta presso il castello di Windsor, vicino a Londra.
Evidentemente, oltre alla guerra del petrolio, pesa come un macigno la questione iraniana che vede la nuova posizione relativamente accomodante della presidenza americana (ma non del Congresso a guida repubblicana) collidere direttamente con gli interessi vitali del GCC e di Israele, il tutto condito dal nuovo sanguinoso conflitto nello Yemen che vede i ribelli Houthi sciiti e filo-iraniani combattere direttamente contro le truppe saudite e le forze di altre paesi a maggioranza sunnita.
Tornando alla questione petrolifera, poiché la stabilità dei paesi produttori -il cui bilancio è costituito in gran parte dai proventi del petrolio dipendono dalla stabilità o meglio dalla crescita dell’economia globale, che a sua volta necessita di un incremento costante delle forniture petrolifere, nella misura di circa un milione di barili al giorno ogni anno, la scommessa saudita appare particolarmente azzardata. Se è possibile o anche probabile che prezzi troppo alti del petrolio soffochino l’economia mondiale, e quindi che il petrolio di scisto americano (e non solo) difficilmente possano essere parte dell’offerta globale, è allora necessario che i Sauditi e gli altri produttori a prezzi più bassi siano in grado di supplire alla futura mancanza dei greggi più costosi, cosa che è tutt’altro che scontato, non solo in termini di produzione ma anche e soprattutto di capacità di esportazione, considerando il vertiginoso aumento dei consumi interni nella maggior parte dei grandi produttori.
Francesco Meneguzzo