Ankara, 3 giu – Osservatori speciali delle prossime elezioni politiche in Turchia, previste per il 7 giugno, sono gli Stati Uniti e Israele, entrambi apparentemente molto preoccupati dalla piega super-presidenzialista che potrebbe prendere il grande paese euro-asiatico se vincesse il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, l’Akp, al potere dal 2002.
Se, infatti, l’Akp riuscisse a conquistare il 60% dei seggi in parlamento, grazie alla maggioranza qualificata potrebbe procedere alla realizzazione del progetto a lungo perseguito dal “sultano” di Ankara di conferire super-poteri al presidente stesso, di fatto esautorando il parlamento e virando decisamente in senso autocratico con condimento di radicalismo islamista di cui Erdogan fa sempre più sfoggio nelle sue crescenti esternazioni pubbliche.
La campagna elettorale, infatti, è stata in pratica condotta dal presidente in persona, in luogo del segretario dell’Akp e premier Ahmet Davutoglu il cui futuro politico, anche in caso di successo del partito dominante, è quanto mai in bilico.
In realtà nessuno dubita che l’Akp – partito della giustizia e dello sviluppo – vinca le elezioni, ma per la prima volta il partito di sinistra pro-curdo Hdp (partito democratico dei popoli) potrebbe superare l’altissima barriera del 10% per entrare in parlamento e conquistarne 60 dei 550 seggi, in questo caso probabilmente impedendo alla formazione di Erdogan di conseguire la maggioranza qualificata.
Altri partiti accreditati di oltre il 10% sono il partito repubblicano del popolo (Chp, orientato a sinistra) che risulta tra il 23-30%, e il partito di azione nazionalista (Mhp, estrema destra) tra il 14 e il 18%.
La criticità di questa tornata elettorale è quindi segnata dagli attacchi incrociati, in particolare tra Akp e Hdp, con il primo che accusa l’Hdp di contiguità con la formazione terrorista curda del Pkk (quella una volta diretta da Ochalan, rifugiato in Italia sul finire degli anni ’90 e da questa, primo ministro Massimo D’Alema, scaricato in Kenya dove fu facilmente catturato dagli 007 turchi) e il secondo, per bocca del sempre più popolare e giovane leader Selahattin Demirtas, che accusa il presidente di tradire la costituzione, di carattere secolare e che prevede il bilanciamento dei poteri.
Sull’altro versante, Erdogan ha assunto negli ultimi tempi un profilo sempre più nazionalista in funzione di contenimento del Mhp.
Le critiche americane alla deriva presidenzialista e autoritaria, espresse per esempio sul New York Times, giornale già dichiarato da Erdogan “nemico della Turchia”, e dall’israeliano Haaretz, che parla di “putinizzazione” della Turchia, più che a un improbabile spirito democratico sembrano motivate dal rischio che il paese possa assumere sotto una guida autocratica e carismatica una politica estera ancora più indipendente.
Non si dimentichi che la Turchia, per la sua collocazione strategica, è un membro di primaria importanza della Nato, di cui rappresenta la proiezione anche logistica sullo scacchiere medio-orientale, ospitandone numerose basi aeree, inoltre sta svolgendo un ruolo chiave, ancorché assai ambiguo, di nemico giurato della Siria e di gestione, in qualche modo, dell’Isis, consentendone il relativo contenimento da parte delle forze curde ma evitando accuratamente di impegnarsi in prima persona.
Dall’altro lato, è notoria l’alleanza strategica sul piano commerciale con la Russia di Putin, ormai ai ferri corti con l’alleanza atlantica, i rapporti con la quale si sono ingigantiti proprio in seguito alla guerra delle sanzioni con l’occidente e in particolare con l’Unione europea, finendo per rimpiazzarla almeno parzialmente nell’interscambio agro-alimentare, nonché e forse soprattutto ad ospitare il rimpiazzo del South Stream, denominato ora Turkish Stream, mega-gasdotto che dalle coste russe del Mar Nero raggiungerà la Turchia al confine con la Grecia e che, da quest’ultima, potrebbe procedere per il cuore dell’Europa via Serbia e Ungheria, aggirando quindi la Bulgaria oltre che l’Ucraina.
Del resto, il protagonismo della Turchia sia verso sud cioè il medio-oriente, sia verso nord cioè la Russia, è ben motivata o meglio assolutamente vitale proprio sul piano energetico, trovandovi rispettivamente accesso alle risorse petrolifere – fa lo stesso o forse anche meglio se controllate dall’Isis – e al gas naturale concesso a prezzo scontato dal Cremlino.
La situazione di Ankara per gli approvvigionamenti energetici si sta infatti facendo sempre più delicata, con una popolazione praticamente raddoppiata rispetto al 1980 (da 45 milioni a oltre 80), l’economia in crescita piuttosto sostenuta, i consumi petroliferi in aumento – raddoppiati in 30 anni – con una produzione marginale e in declino, consumi di gas naturale, totalmente importato, aumentati di 16 volte dal 1990, fabbisogno di carbone raddoppiato in 30 anni con importazioni crescenti e produzione stagnante, e complessivamente un consumo energetico quintuplicato dal 1980 e tuttora in forte espansione, a fronte di una produzione interna soltanto poco più che raddoppiata.
Con una tale e crescente dipendenza dall’estero per alimentare la propria crescita economica, è facile immaginare come la Turchia abbia necessità di ampi e indipendenti spazi di manovra, anche al rischio di collisione con gli interessi ad ampio spettro di Washington e più regionali di Israele, i quali a loro volta non possono che desiderare per l’ingombrante paese musulmano una leadership interna sfumata e manovrabile.
Analoghe considerazioni varrebbero, approssimativamente, per l’Europa stessa, solo che questa avesse una consapevolezza di se’ sufficiente a riconoscere e perseguire i propri legittimi interessi.
Francesco Meneguzzo