Roma, 3 ott – Il Sole 24 Ore odierno se ne esce con un articolo che nessuno fino a pochi mesi fa avrebbe mai immaginato potesse essere scritto, intitolato “La Grande Russia riparte dal Medio Oriente”, in cui una serie di congetture si conclude definendo l’intervento in Siria come una prova di forza il cui reale obiettivo sarebbe il congelamento dello status dell’Ucraina rispetto a Unione europea e Nato, il salvataggio definitivo (e magari l’annessione?) del Donbass, lo scongiuramento dello scudo anti-missile in Europa orientale e chi sa cos’altro.
Russia vs. resto del mondo?
Vero è che il gruppo-Normandia sull’Ucraina (Merkel – Hollande – Poroshenko e Putin, alla faccia del fantasma-Mogherini) si è riunito ieri a Parigi, secondo un programma deciso da tempo (e la prima impressione è quella di una certa distensione, ossia un sostanziale cedimento da parte europea e ucraina), e che i raid russi sulle postazioni dell’Isis sono iniziati tre giorni prima, ma di qui a trarne conclusioni della portata di quelle proposte dal quotidiano di Confindustria ce ne corre.
Sia come sia, evitando analisi macroeconomiche che necessiterebbero di ben altro spazio, non sarebbe male chiedersi perché la nostra storica affidabile fornitrice di idrocarburi e importatrice di tutto il resto, che l’ultima generazione ha conosciuto per lo più come un pacifico gigante territoriale in disarmo, si sia permessa di alzare la testa tanto prepotentemente permettendosi perfino di “fare” prima di “annunciare”.
Non che la Georgia prima – correva l’anno 2008 e l’invasione dell’Ossezia del sud da parte di Tbilisi e sponsorizzata dagli Usa anche sul campo fu stroncata in pochi giorni con i carri di Mosca alle porte della splendida capitale georgiana – e la Crimea poi, strappata all’Ucraina nella primavera 2014 senza sparare un colpo – non facessero presagire che qualcosa fosse cambiato, ma la combinazione potenzialmente micidiale delle sanzioni imposte unilateralmente dagli Stati Uniti prima e a rimorchio dall’Unione Europea poi, e del crollo dei prezzi del petrolio, forse sponsorizzato anche dagli Usa prima e sostenuto dall’Arabia Saudita con una mossa probabilmente suicida per tutti e due, avrebbero potuto annientare qualsiasi volontà di potenza o aspirazione multipolare del Cremlino.
Invece, dopo un anno e mezzo di incessante intensa pressione, tra tutte le cose incisive che il presidente russo Vladimir Putin ha potuto dire, in discorsi ufficiali e interviste a margine della 70esima assemblea generale dell’Onu c’era anche questa: “Nessuno è obbligato a conformarsi a un singolo modello di sviluppo che qualcun altro abbia una volta per tutte riconosciuto come quello giusto. L’Unione Sovietica ci ha provato, e ha fallito. Ora gli Americani stanno tentando la stesa cosa, e raggiungeranno lo stesso risultato [il fallimento]”.
C’è qualcos’altro sotto queste dichiarazioni di principio? Apparentemente, un fondamento economico abbastanza solido, che rimanda però a una sottostante capacità di lotta e forza di volontà del popolo che l’occidente pare aver smarrito.
In Russia nessuna Zirp
La divergenza netta delle politiche economiche tra la Russia e tutti gli altri paesi e blocchi dell’occidente si è rivelata, soprattutto in seguito alla prima crisi finanziaria del 2008 e con ancora maggior nettezza dalla fine del 2011 con un rialzo dei tassi d’interesse a breve termine, quelli relativi ai prestiti interbancari con immediati riflessi sui tassi dei prestiti al consumo, praticato dalla Banca centrale di Mosca – portandoli oggi tra il 14% e il 15% – a fronte del crollo di tutti gli altri, ormai da tre anni stabilizzati intorno allo zero, tanto che la stessa Federal Reserve, contro la maggior parte delle previsioni, non li ha ritoccati nemmeno all’ultimo incontro plenario del 17 settembre scorso.
Cosa comporta avere tassi d’interesse bassissimi, prossimi allo zero, ossia quella che è chiamata “Zirp” o “politica degli interessi zero”?
Secondo l’analista Axel Merk, di Merk Investment, la Zirp è dannosa per tutti i soggetti economici e anche per la pace.
Per l’economia in generale, la Zirp è dannosa in quanto il facile accesso a capitali quasi non gravati da interessi determina una allocazione arbitraria degli stessi capitali a imprese e settori inefficienti che normalmente sarebbero espulsi dal mercato. Il caso del petrolio di scisto americano è in questo senso altamente rappresentativo: con l’80% del settore estrattivo lavorando in perdita fin da quando, un anno fa, il prezzo del petrolio è sceso sotto i 90 dollari al barile, e comunque metà del settore con l’acqua alla gola anche prima, solo l’accesso a decine di miliardi di dollari “facili” ne ha impedito la tempestiva sostanziale ristrutturazione, e soltanto da un paio di mesi è iniziato il crollo della produzione. Esattamente quello che avveniva nel blocco Sovietico dove le risorse alla produzione erano distribuite più secondo la volontà politica che le reali efficienze.
La Zirp è dannosa per gli investitori, invogliati a contribuire alle bolle speculative grazie a una volatilità dei valori azionari tenuta artificialmente bassa (anche grazie alle iniezioni di liquidità create dal nulla), pronti a vendere nel panico al primo rialzo dei tassi d’interesse o ai primi inevitabili fallimenti. Di nuovo, un’allocazione sbagliata dei capitali che rende l’economia fondamentalmente inefficiente.
La Zirp è dannosa per la gran parte delle persone, sia perché non percepiscono alcun interesse sui propri risparmi depositati in banca, sia perché sono incoraggiati ad assumersi debiti per il consumo (case, auto, studi, e così via) che poi non saranno in grado di ripagare, soprattutto a fronte di spese inattese, perdita di lavoro ecc. Questo aspetto ha poco a che fare con un’economia pianificata ma porta allo stesso risultato: allocazione sbagliata di risorse verso soggetti incapaci di gestirle.
La Zirp è dannosa per la stabilità dei prezzi: sebbene questa politica sia in grado di moderare o perfino annullare l’inflazione media (tanto che l’occidente soffre di una pesante crisi deflattiva), la stessa errata allocazione di capitali a settori inefficienti crea pericolose divergenze tra produzione e fabbisogni, cioè si producono beni che nessuno chiede e talvolta anche viceversa. La produzione a pieno regime di petrolio e di altre materie prime, sovvenzionata da capitali di troppo facile accesso, a fronte dell’incapacità dell’economia mondiale di assorbirla, può esserne un esempio eclatante, la cui conseguenza è stata l’andamento erratico dei prezzi e in particolare il crollo epocale realizzato in pochi mesi tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015.
La Zirp è dannosa per la politica, nel senso che la politica monetaria delle banche centrali dovrebbe limitarsi a regolare la quantità di credito disponibile per l’economia, mentre la politica, attraverso la fiscalità (tasse e regolamentazioni) dovrebbe occuparsi sull’indirizzamento corretto dell’allocazione dello stesso credito. Demandare, come dato di fatto, alle banche centrali anche i compiti della piena occupazione e della distribuzione del credito rappresenta la rinuncia della politica ai propri compiti.
Infine, la Zirp rappresenta una minaccia per la pace: le banche centrali dell’occidente, a partire dal 2008, hanno sostanzialmente “guadagnato tempo”, senza poter influire sull’efficienza dei settori di fatto sovvenzionati, che è determinata da fattori reali (di nuovo, il caso del petrolio di scisto americano è assai rappresentativo in merito, ma anche quelli dell’edilizia, delle auto, e così via). Cosa accade quando il tempo finisce e i problemi non sono stati risolti? Alla fine, il pubblico richiede soluzioni diverse, alle quali i governi possono reagire additando nemici interni ed esterni, cosa che storicamente può risolversi in conflitti armati come al termine della Grande Depressione degli anni ’30 del secolo scorso, favoriti dalla possibilità di impegnarsi in spese militari finché si esclude la restituzione dei giganteschi debiti sovrani, la cui ristrutturazione sarebbe a sua volta insostenibile da parte dei creditori, nonché il rischio di una recessione ordinata in grado di spazzare via le imprese e i settori inefficienti.
Mentre la Cina si è situata un po’ in mezzo tra le politiche espansive occidentali e quella molto più stretta della Russia, ma più prossima alle ricette americane – con le conseguenze sotto gli occhi di tutti – la politica finanziaria ed economica del Cremlino e della sua banca centrale appare l’unica sana di tutto lo scenario, certamente in parte forzata dalla necessità di sostenere il rublo a fronte delle sanzioni e dei minori introiti petroliferi mediante tassi d’interesse allettanti, ma in realtà pianificata da molto più tempo e secondo noi soprattutto sostenuta, anzi resa possibile, dalla volontà del popolo di costruire un futuro più stabile e presentarsi al resto del mondo con le carte in regola per assumere nuovamente un ruolo centrale da grande potenza.
Rinunciare al credito facile oggi in funzione del destino a lungo termine della propria Nazione: in Russia va così mentre all’occidente e, dolorosamente, all’Europa, pare non riuscire più.
Francesco Meneguzzo