Roma, 13 ott – È partita ieri l’offerta pubblica iniziale (Ipo – Initial public offering) di Poste Italiane, fase preliminare allo sbarco in borsa.
L’arrivo effettivo sul mercato si avrà a partire dal prossimo 27 ottobre. Si tratta della più grande operazione di privatizzazione dai tempi di Enel, correva l’anno 1999.
La quota di Poste Italiane che il ministero dell’Economia ha deciso di cedere assomma al 35%, con la prospettiva di salire circa al 40% a seguito dell’esercizio di eventuali opzioni. In questo modo lo Stato mantiene una solida maggioranza anche se non sono escluse, nel futuro, eventuali cessioni di ulteriori pacchetti azionari.
Il prezzo delle azioni – ed il conseguente introito per il ministero – non è ancora definito ma sarà deciso all’atto della quotazione. In ogni caso, si tratta di un’operazione che nasconde una più che scarsa convenienza. Vediamo perché.
L’incasso previsto per le casse pubbliche sarà, secondo le stime, fra i 2.7 e i 3.7 miliardi di euro. Significa una valutazione dell’azienda, in totale, attorno ai 9-10 miliardi. Con riferimento ai bilanci degli ultimi anni, gli utili si sono in media attestati poco sotto il miliardo. Il dividendo è oscillato attorno a diverse percentuali, in media però quasi mai al di sotto del 50%, cifra peraltro destinata ad aumentare nel piano industriale per i prossimi anni quando, per invogliare il mercato, si prospetta un innalzamento addirittura all’80%.
Lo Stato incassava quindi, ogni anno, fra i 400 e i 500 milioni di euro. Cifra che, senza privatizzazione, avrebbe potuto essere considerata valida anche per il futuro dato che il bilancio mostra una società solida e ben diversificata in molti settori. Anzitutto, dunque, vi è la rinuncia ad una buona parte di questi incassi, cash, pressoché stabili anno per anno ed utili per puntellare i conti di via XX Settembre.
In secondo luogo, per legge i proventi dalle dismissioni pubbliche sono destinati alla riduzione dell’indebitamento. Se stiamo – con ottimismo – nella parte alta della forchetta, e cioè 3.5 miliardi di incasso, questi rappresentano la bellezza dello 0.15% del totale. Anche con la vendita completa di Poste Italiane, la riduzione si attesterebbe alla cifra dello 0.45%. Un contributo pressoché insignificante, o almeno non tale da giustificare la necessità di privarsi di una società strategica.
E veniamo alla terza questione, quella prettamente finanziaria. Volendo semplificare, il rendimento – rapporto dividendo/valore – di Poste Italiane risultava essere pari, con un calcolo prudenziale, a circa il 5%. Se l’incasso è destinato ad aggredire (eufemismo) la mole di debito pubblico sarebbe lecito aspettarsi che questo abbia, come minimo, un costo maggiore. Eppure, così non è: il costo del servizio del debito, in Italia, è pari a circa il 4% e poco più, ma attualmente in diminuzione grazie a calo dello spread e politica monetaria della Bce. Questo cosa comporta? Spieghiamolo con un esempio: se il ministero cedesse il 100% di Poste, incasserebbe 10 miliardi rinunciando a 500 milioni di dividendi. L’incasso andrebbe a ridurre il debito pubblico per lo stesso ammontare, facendo così scendere gli interessi sullo stesso del 4%. Significa meno spese per 400 milioni, ma anche minori entrate per 500 (i dividendo): una perdita netta di 100 milioni ogni anno.
Buona privatizzazione a tutti.
Filippo Burla