Roma, 28 dic – Dal 2012 ad oggi le privatizzazioni hanno fruttato alle casse dello Stato oltre venti miliardi di euro. Da Sace a Simest passando per Fintecna ed Enel, tralasciando la magra figura della quotazione di Fincantieri (incasso zero per l’erario), per arrivare alla cessione delle piccole quote residue detenute in Generali e allo sbarco in borsa di Poste Italiane: Ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti hanno lavorato alacremente per sfoltire il portafoglio partecipazioni.
E’ quanto emerge da una relazione inviata di recente dal governo al Parlamento sullo stato delle privatizzazioni. L’obiettivo della politica di (s)vendita delle partecipate pubbliche? Sempre uno: ridurre il debito pubblico, tramite il Fondo ammortamento titoli di Stato al quale sono in genere destinati i proventi delle cessioni sovrane. Il Fondo prende il via nel 1994, collaterale all’avvio del maxi-smantellamento dell’Iri, raccogliendo da allora qualcosa come 143 miliardi di euro. Quasi il 15% di questa somma è stata raccolta negli anni che vanno dal 2012 ad oggi: “Nel periodo in esame, sono affluiti al Fondo ammortamento titoli di Stato quasi 20 miliardi di euro”, si legge nella relazione, che si ferma però al dicembre 2015 e non considera così né la quotazione di Enav (meno di 800 milioni di incasso) né quella di Ferrovie dello Stato, prevista per il 2017. Il totale potrebbe quindi essere ben superiore alla cifra indicata, evidenziando una decisa accelerazione a partire dall’avvio della stagione degli esecutivi tecnici.
Con quali risultati? Le somme sono imponenti, ma non trovano riscontro nell’obiettivo che si ponevano. Ci vengono in aiuto le serie storiche: nel 1994 il debito pubblico reale (ai valori correnti) ammontava a poco più di 1500 miliardi di euro, meno della metà rispetto agli attuali 2200 miliardi circa. Non va meglio restringendo il campo dal 2012 ad oggi, con una cresciuta di oltre 200 miliardi di euro. L’indebitamento statale, dunque, è cresciuto in larga misura nonostante le privatizzazioni. O forse anche a causa di esse? Perché è vero, senza la cessione delle partecipate pubbliche probabilmente il valore assoluto del debito sarebbe superiore. Di converso, mantenendo le quote originarie delle società l’Economia avrebbe incassato anche più lauti dividendi, da destinare – in un’ottica di lungo periodo, mentre la vendita per far cassa è logica di brevissimo termine – anche loro alla riduzione del debito pubblico. E invece ci siamo condannati da soli anche alla desertificazione industriale.
Filippo Burla