Roma, 2 mar – C’é una storia tutta italiana che ben esprime la cialtroneria della Seconda repubblica, tanto volenterosa nello smarcarsi dalla presunta corruzione della Prima quanto totalmente prona agli interessi di consorterie varie, uomini e istituzioni lasciati liberi di agire dopo che il colpo di Stato di Tangentopoli aveva tolto di mezzo quel che restava della sovranità nazionale. È la storia di Telecom, l’ex monopolista privatizzato con un colpo di spugna e famosa per essere diventata la prima “public company” tricolore. Un successo solo etimologico, dato che gli azionisti sono poi sempre stati sacrificati sull’altare di scalate e controscalate. E, almeno in una di queste, compare il rinnovatore insospettabile, che forse tanto rinnovatore e tanto insospettabile non è: Alfio Marchini.
Correva l’anno 1998, Telecom Italia era appena stata privatizzata e al vertice troviamo Franco Bernabé. Il dirigente è supportato dal “nocciolo duro” del quale fanno parte Generali, Montepaschi e altri, tanto duro da lasciar spazio a Umberto Agnelli che con il suo 0.6% fa e disfa, pone e dispone. Sulla scena arriva l’allora amministratore delegato di una Olivetti ormai spolpata e resa il fantasma di sé stessa dalla gestione De Benedetti, e cioè Roberto Colaninno. Il ragioniere di Mantova decide di lanciare un’offerta pubblica su Telecom, facendosi prestare dalle banche i miliardi di lire necessari per l’operazione. È il famoso leveraged buyout (per Telecom sarà solo il primo di una serie), tecnicismo tramite il quale gli utili della società verranno poi utilizzati per ripagare il prestito contratto. Bernabé è impegnato ad evitare che la scalata si compia, il governo fa orecchie da mercante se non addirittura rema contro l’ipotesi difensiva. A Palazzo Chigi sedeva all’epoca Massimo D’Alema, con Draghi nella veste di direttore generale del Tesoro. Bernabé vorrebbe che l’assemblea di Telecom approvasse le misure antiscalata, ma dall’esecutivo ordinano al futuro governatore della Bce di non partecipare, facendo mancare i numeri necessari. Ed ecco Marchini: è probabile che la decisione sia stata presa in uno di quattro incontri che ebbero luogo, fra una partita di polo ed un’altra, su sua iniziativa proprio durante quell’anno e quei concitati momenti. A questi incontri – leggenda vuole che si tenessero nel salotto di casa Marchini – invitati d’onore erano D’Alema ed Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca che spalleggiava Colaninno. Una commistione fra politica, mondo affaristico ed esponenti del mondo finanziario, il fu “salotto buono” italiano. “Sono nemico dei poteri marci”, aveva detto il candidato sindaco. D’altronde, se son marci non “tirano” più. Decisamente più a suo agio, Marchini, si trova con quelli forti. Appunto il salotto buono, tanta carta e poca sostanza.
Il risultato? Colaninno riuscì nell’impresa, ma lo schema andò in difficoltà nel giro di pochi anni. Nel frattempo gli utili dell’ex monopolista venivano dirottati a pagare gli interessi sul maxiprestito, si sfrondano attività di eccellenza come il Cselt (avete presente lo standard audio mp3? E’ stato inventato nei laboratori Telecom ora chiusi), il dividendo finisce ad arricchire i “capitani coraggiosi” che hanno caricato la società di miliardi di debiti. Ed è subito (ancora) crisi: arriva Tronchetti Provera, sempre con la benedizione di D’Alema, ancora l’amico di Marchini che si rivede nel disastro industriale. Il resto è storia recente: prima gli spagnoli, poi i francesi a banchettare sulle rovine di un’eccellenza rovinata dall’affarismo tricolore.
Filippo Burla