Roma, 18 – A cosa è servito il Jobs Act? A creare più precarietà mentre, contemporaneamente, sono crollate le assunzioni ed esplosi i licenziamenti. Una combinazione micidiale, quasi un paradosso, difficilmente ottenibile se non con una costante e dedita applicazione. E una certa dose di incapacità di leggere il reale. A certificare che la riforma, tanto voluta da Renzi e dal ministro in quota Legacoop Giuliano Poletti, imbarca acqua ovunque, è l’Inps, che nel bollettino di agosto 2016 dell’Osservatorio sul precariato traccia un quadro in netto e costante peggioramento per i lavoratori.
Partiamo dalle assunzioni, che “nel periodo gennaio-agosto 2016 sono risultate 3.782.000, con una riduzione di 351.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-8,5%)“, si legge nella nota. Scomponendo il dato nelle sue variabili, si nota che il rallentamento “ha riguardato – continua il comunicato – principalmente i contratti a tempo indeterminato: –395.000, pari a –32,9% rispetto ai primi otto mesi del 2015”. Un calo che “va considerato in relazione al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui dette assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni”. Insomma, è vero che il segno meno davanti alle percentuali va parametrato al boom dell’anno scorso, ma è altrettanto vero – e l’Inps lo scrive chiaro e tondo – che questa forte crescita registrata del 2015 aveva a che fare esclusivamente con i forti sgravi contributivi previsti dall’esecutivo.
Per il Jobs Act non poteva esserci bocciatura peggiore. Come visto e previsto, infatti, con il progressivo esaurirsi della dotazione di fondi le imprese non assumono più, se non a tempo determinato, tipologia che non sembra risentire del nuovo picco di crisi. Analogo discorso anche per i voucher, nuova frontiera del precariato estremo, che risultato in crescita del 35,9%. Altro che possibilità di licenziare: i datori di lavoro non assumono perché gli è data la facoltà di recedere dai contratti in ogni momento, ma solo se trovano questi convenienti e, principalmente, se la domanda offre delle prospettive. Escludendo quest’ultima, che in tempi di svalutazione interna per salvare l’euro non sembra in cima all’agenda di politica economica del governo, rimane solo l’altra opzione. La quale però, con molta lungimiranza e nonostante la chiara indicazione che arriva dall’economia reale, verrà progressivamente a mancare. Per l’anno prossimo l’esecutivo non ha infatti previsto in finanziaria il rinnovo, pur chiesto da più parti, degli incentivi, preferendo puntare su una generica promessa di taglio stabile del cuneo fiscale e di spinta sul tema della produttività. Due temi ricorrenti, già sentiti più volte per dire che, nella migliore delle ipotesi, non se ne farà nulla.
Filippo Burla