Francoforte, 28 apr – Deutsche Bank e Commerzbank (rispettivamente la prima e la seconda banca della Germania) hanno annunciato ufficialmente il fallimento del progetto di fusione. In un comunicato congiunto gli amministratori delegati delle due banche tedesche, Christian Sewing di Deutsche e Martin Zielke di Commerzbank, hanno fatto sapere che “questa operazione non avrebbe apportato sufficienti benefici per giustificare i costi di un’intesa così complessa”. Dunque, questo matrimonio non s’ha da fare. Prima di comprendere i motivi che hanno portato a questa scelta, è utile ricostruire in breve la vicenda.
Il fallimento della fusione voluta dal governo
Le nozze tra i due colossi del credito erano sponsorizzate dal governo tedesco che ha in mano il 15% delle azioni di Commerzbank. In particolare a spingere sull’acceleratore era il ministro delle Finanze, il socialdemocratico Olaf Scholz: “L’attività industriale globale tedesca necessita di banche competitive in grado di accompagnarla nel mondo”.
Peccato che per realizzare un campione bancario nazionale erano necessari quantomeno 30mila licenziamenti. Una soluzione bocciata dal sindacato dei dipendenti, che ha un’ampia rappresentanza nei consigli di sorveglianza dei due istituti. Ed è per questo che “dopo un’attenta analisi è diventato chiaro che una simile fusione non sarebbe stata nell’interesse degli azionisti e degli stakeholders”. Alla luce di questi fatti lo stesso Scholz ammette che le aggregazioni “hanno un senso solo se il modello di business è affidabile”. Quella di Berlino è, dunque, una ritirata strategica. Commerzbank, infatti, resta nelle mani dell’azionista pubblico che, è vero, non può fare quello che vuole ma mantiene comunque un potere di interdizione su qualunque operazione sgradita.
Deutsche Bank e il sistema creditizio tedesco
Prima di capire quale potrebbe essere il futuro di Deutsche Bank, è bene analizzare brevemente il sistema creditizio tedesco. Come ha sottolineato di recente Il Sole 24 Ore le grandi banche in Germania (DB, Commerzbank e Unicredit-Hypo vereinsbank) hanno 780 miliardi di depositi da clientela retail e commerciale su un totale di 3.800 miliardi dell’intero sistema. Le Sparkassen (casse di risparmio locali) e Landesbanken (banche regionali) hanno 1.200 miliardi di depositi, le banche di credito cooperativo 700 miliardi.
Il 75% dei depositi della clientela retail è saldamente in mano a casse di risparmio e banche di credito cooperativo, istituti estremamente radicati nel territorio e strettamente legati a doppio filo con il tessuto della politica locale. I tedeschi, dunque, si fidano poco dei grandi istituti di credito. Le oligarchie economiche al contrario della gente comune non la pensano così. La crisi di Deutsche Bank nasce quando abbandona i consigli d’amministrazione delle grandi fabbriche tedesche per darsi ai giochi della finanza creativa. Così l’istituto di Francoforte ha aperto le proprie porte ai grandi fondi esteri.
Il destino di Deutsche Bank è nelle mani degli stranieri
Deutsche Bank ha un azionariato diffuso e i primi soci, tutti con quote inferiori al 5%, in gran parte composto da fondi d’investimento americani. Ma a togliere le castagne dal fuoco ai tedeschi potrebbero arrivare i cinesi. Hna, la società che da compagnia di trasporto aereo è diventata negli anni un conglomerato di taglia globale, è ancora il maggiore azionista di Deutsche Bank (6,3% delle quote), seguito dalla Famiglia Reale del Qatar (6.1%) e dal fondo di investimento statunitense BlackRock (4.85%).
L’ipotesi di un interessamento del gigante asiatico nei confronti dell’istituto di Francoforte viene rilanciata da un articolo di Andrea Muratore pubblicato sulla testata Gli occhi della Guerra. Per Pechino “riuscire a razionalizzare la sua partecipazione in DB e strutturarla sui suoi conglomerati statali significherebbe acquisire un pivot importante in Europa entrando di fatto nelle strutture direttive di una banca che necessita di investimenti ingenti per il rilancio”.
In questa vicenda il governo tedesco, giustamente, non starà a guardare. Pertanto, è ovvio che se qualche altra nazione europea si trovasse nella stessa situazione la Merkel non avrebbe nulla da obiettare. O forse sì?
Salvatore Recupero