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Riyad, 3 set – Twilight in the Desert o Crepuscolo nel deserto fu un libro-saggio scritto da Matthew Simmons nel 2005, in piena espansione dell’economia mondiale, quando le cassandre, quelle che oggi sono diventati i gufi nel becero lessico renziano, avevano vita proprio dura. Perché l’autore, già consigliere speciale del presidente americano George Bush senior, quindi fondatore di una fortunata banca d’investimento nel settore degli idrocarburi, di cui era profondissimo conoscitore, predisse il picco del petrolio in Arabia Saudita, allora – come fino a poco tempo fa – dominus del relativo mercato.
La caratura e la credibilità del personaggio scatenarono reazioni di ogni tipo e segno, inclusa quella rabbiosa delle autorità saudite, e preoccupatissime nel resto del mondo: allora, come oggi, la petromonarchia eroga intorno all’8% del petrolio convenzionale consumato nel mondo.
Per inciso, Simmons aveva ragione almeno in un punto: se non tanto la produzione complessiva, le esportazioni saudite hanno registrato il loro massimo nel 2005 e non sono mai tornate a quel livello.
Avvolgendo il nastro velocemente fino a oggi, è niente meno la Deutsche Bank a lanciare l’allarme sullo stato delle finanze di Riyad, con una nota fredda ma densa di implicazioni: “L’impatto dei prezzi del petrolio sulle riserve della banca centrale [saudita] è ancora più grande di quanto stimato in precedenza, a causa della omissione degli asset medio-orientali. In pratica, i bassi prezzi del petrolio innescano un declino delle riserve attraverso due canali. Con il primo, le riserve sono usate per tamponare i deficit fiscali. Il deficit del governo saudita, per esempio, sta raggiungendo il 20% del Pil quest’anno. Con il secondo, un certo numero di grandi esportatori di petrolio nel medio oriente, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mantengono l’aggancio al dollaro che finisce però sotto pressione con la diminuzione degli introiti dalle esportazioni di petrolio, che a loro volta sono correlate negativamente con la forza del dollaro.”
La nota poi prosegue con le aspettative nel breve termine: “Ci aspettiamo che i governi del medio oriente continuino a perdere significative riserve [finanziarie, sia mobiliari in termini di asset detenuti] nei mesi seguenti. I bassi prezzi del petrolio sono soltanto uno degli ingredienti alla base di questa tendenza. Il fattore che acuisce tutto questo è l’accanimento nell’aggancio al dollaro, nonostante costi considerevoli in termini di riserve”.
Infine, le previsioni a medio termine: “Se i prezzi del petrolio recupereranno nel medio termine, la pressione sulle valute [medio orientali, tra cui quella saudita] naturalmente diminuiranno. I nostri economisti notano, tuttavia, che la spesa pubblica saudita è aumentata di circa il 10% ogni anno nel decennio passato [causa esplosione demografica, azzeramento della fiscalità personale, spese militari alle stelle, ecc, ndr]. Questo fatto ha aumentato drasticamente il prezzo del petrolio necessario a pareggiare il bilancio, da 25 dollari al barile nel 2004 ai 105 dollari al barile di oggi. Questo livello può essere ridotto per mezzo di tagli alle spese pubbliche. Tuttavia, sembra improbabile che il pareggio di bilancio possa tornate ai livelli visti negli anni 2000. A meno che i prezzi del petrolio salgano fino a livelli senza precedenti, quindi, l’accumulazione delle riserve finanziarie e azionarie dei paesi Opec non potrà tornare ai livelli del decennio precedente. La previsione più realistica è che col tempo i paesi Opec bruceranno lentamente le proprie riserve”.
Che l’Arabia Saudita, con la sua guerra dei prezzi ai produttori di petrolio non convenzionali, si fosse infilata in un vicolo cieco lo spiegammo recentemente, così come è oggi abbastanza evidente che l’economia reale globale reagisce a prezzi del petrolio oltre i 60 dollari (e probabilmente anche meno) entrando in recessione, anche a causa della simultanea stagnazione o retrocessione delle retribuzioni al lavoro. Le probabilità che i prezzi delle materie prime più importanti, prima tra tutte il petrolio, tornino ai livelli del 2007-2008 o anche a quelli del 2011, si vanno riducendo di giorno in giorno.
Così stando le cose, la monarchia saudita non potrà che indebolirsi progressivamente favorendo l’esplosione delle ambiguità già evidenti e – prospettiva terrificante – un caos in stile libico che lascerebbe il mondo privo di una quota di approvvigionamenti petroliferi ben superiore a quella erogata a suo tempo da Tripoli.
Ironicamente, mentre gli strateghi di Ryiad si sono svenati per conservare le quote di mercato ed estromettere i nuovi arrivati del petrolio di scisto, soprattutto negli Usa, questi ultimi stanno dimostrando una resistenza sorprendente grazie ad aumenti di efficienza e strumenti finanziari adeguati (sebbene il declino sia consolidato e in via di accelerazione), mentre il gigante del deserto ha rivelato altrettanto inaspettatamente di avere i piedi della consistenza dell’argilla.
Francesco Meneguzzo
Riyad, 3 set – Twilight in the Desert o Crepuscolo nel deserto fu un libro-saggio scritto da Matthew Simmons nel 2005, in piena espansione dell’economia mondiale, quando le cassandre, quelle che oggi sono diventati i gufi nel becero lessico renziano, avevano vita proprio dura. Perché l’autore, già consigliere speciale del presidente americano George Bush senior, quindi fondatore di una fortunata banca d’investimento nel settore degli idrocarburi, di cui era profondissimo conoscitore, predisse il picco del petrolio in Arabia Saudita, allora – come fino a poco tempo fa – dominus del relativo mercato.
La caratura e la credibilità del personaggio scatenarono reazioni di ogni tipo e segno, inclusa quella rabbiosa delle autorità saudite, e preoccupatissime nel resto del mondo: allora, come oggi, la petromonarchia eroga intorno all’8% del petrolio convenzionale consumato nel mondo.
Per inciso, Simmons aveva ragione almeno in un punto: se non tanto la produzione complessiva, le esportazioni saudite hanno registrato il loro massimo nel 2005 e non sono mai tornate a quel livello.
Avvolgendo il nastro velocemente fino a oggi, è niente meno la Deutsche Bank a lanciare l’allarme sullo stato delle finanze di Riyad, con una nota fredda ma densa di implicazioni: “L’impatto dei prezzi del petrolio sulle riserve della banca centrale [saudita] è ancora più grande di quanto stimato in precedenza, a causa della omissione degli asset medio-orientali. In pratica, i bassi prezzi del petrolio innescano un declino delle riserve attraverso due canali. Con il primo, le riserve sono usate per tamponare i deficit fiscali. Il deficit del governo saudita, per esempio, sta raggiungendo il 20% del Pil quest’anno. Con il secondo, un certo numero di grandi esportatori di petrolio nel medio oriente, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mantengono l’aggancio al dollaro che finisce però sotto pressione con la diminuzione degli introiti dalle esportazioni di petrolio, che a loro volta sono correlate negativamente con la forza del dollaro.”
La nota poi prosegue con le aspettative nel breve termine: “Ci aspettiamo che i governi del medio oriente continuino a perdere significative riserve [finanziarie, sia mobiliari in termini di asset detenuti] nei mesi seguenti. I bassi prezzi del petrolio sono soltanto uno degli ingredienti alla base di questa tendenza. Il fattore che acuisce tutto questo è l’accanimento nell’aggancio al dollaro, nonostante costi considerevoli in termini di riserve”.
Infine, le previsioni a medio termine: “Se i prezzi del petrolio recupereranno nel medio termine, la pressione sulle valute [medio orientali, tra cui quella saudita] naturalmente diminuiranno. I nostri economisti notano, tuttavia, che la spesa pubblica saudita è aumentata di circa il 10% ogni anno nel decennio passato [causa esplosione demografica, azzeramento della fiscalità personale, spese militari alle stelle, ecc, ndr]. Questo fatto ha aumentato drasticamente il prezzo del petrolio necessario a pareggiare il bilancio, da 25 dollari al barile nel 2004 ai 105 dollari al barile di oggi. Questo livello può essere ridotto per mezzo di tagli alle spese pubbliche. Tuttavia, sembra improbabile che il pareggio di bilancio possa tornate ai livelli visti negli anni 2000. A meno che i prezzi del petrolio salgano fino a livelli senza precedenti, quindi, l’accumulazione delle riserve finanziarie e azionarie dei paesi Opec non potrà tornare ai livelli del decennio precedente. La previsione più realistica è che col tempo i paesi Opec bruceranno lentamente le proprie riserve”.
Che l’Arabia Saudita, con la sua guerra dei prezzi ai produttori di petrolio non convenzionali, si fosse infilata in un vicolo cieco lo spiegammo recentemente, così come è oggi abbastanza evidente che l’economia reale globale reagisce a prezzi del petrolio oltre i 60 dollari (e probabilmente anche meno) entrando in recessione, anche a causa della simultanea stagnazione o retrocessione delle retribuzioni al lavoro. Le probabilità che i prezzi delle materie prime più importanti, prima tra tutte il petrolio, tornino ai livelli del 2007-2008 o anche a quelli del 2011, si vanno riducendo di giorno in giorno.
Così stando le cose, la monarchia saudita non potrà che indebolirsi progressivamente favorendo l’esplosione delle ambiguità già evidenti e – prospettiva terrificante – un caos in stile libico che lascerebbe il mondo privo di una quota di approvvigionamenti petroliferi ben superiore a quella erogata a suo tempo da Tripoli.
Ironicamente, mentre gli strateghi di Ryiad si sono svenati per conservare le quote di mercato ed estromettere i nuovi arrivati del petrolio di scisto, soprattutto negli Usa, questi ultimi stanno dimostrando una resistenza sorprendente grazie ad aumenti di efficienza e strumenti finanziari adeguati (sebbene il declino sia consolidato e in via di accelerazione), mentre il gigante del deserto ha rivelato altrettanto inaspettatamente di avere i piedi della consistenza dell’argilla.
Francesco Meneguzzo