Roma, 17 feb – Con 408 voti a favore, 254 contrari e 33 astenuti, il parlamento europeo ha approvato il Ceta, l’accordo di libero scambio fra Unione Europea e Canada. Nonostante l’ostruzionismo dell’anno scorso da parte della Vallonia, Bruxelles riesce così a portare a casa la ratifica del trattato, che ha visto il premier canadese Justin Trudeau arrivare nella capitale belga per siglare di persona l’accordo.
Il Ceta, acronimo per Comprehensive Ecomic Trade Agreement, è un trattato commerciale con il quale Ue e Canada abbattono molte barriere, tariffarie e non, che fino ad oggi regolavano i reciproci scambi commerciali. Al di là dei dazi – la cui abolizione dei dazi permetterà ai produttori europei di risparmiare 500 milioni di euro l’anno, una cifra non particolarmente importante – a fare la vera parte del leone sono proprio le barriere di tipo non tariffario. Si tratta di tutta quella serie di regolamenti, direttive e monopoli pubblici con i quali i governi, oltre a proteggere le attività produttive nazionali, tutelano i propri cittadini. Se nell’era dei round della Wto i dazi rivestono ormai quasi un ruolo residuale nel commercio mondiale, sono proprio queste ultime i bersagli preferiti dei negoziati internazionali. Ecco servito il menù: liberalizzazione, se non completa, quasi totale, dei servizi relativi alle telecomunicazioni, alla sanità, alla finanza, allargamento delle maglie per quanto riguarda i controlli alimentari, abbattimento di regole considerate vetuste su proprietà intellettuale e persino diritti dei lavoratori. Una volta accusate di essere lacci burocratici si possono ben sacrificare, permettendo al Canada (e viceversa per chi vorrà operare dalle parti di Ottawa) di non dover più rispettare regole nazionali fino ad oggi in vigore. Non manca pure l’ambito della magistratura: se il Ttip ipotizzata il ricorso all’arbitrato internazionale – una sorta di tribunale privato – per risolvere le dispute relative a punti del trattato, nel Ceta questo è scritto nero su bianco. E’ l’apoteosi del liberismo, che viene fin quasi sorpassato. Lo Stato rinuncia del tutto alla propria sovranità, non è più nemmeno ‘Stato minimo’ destinato ad occuparsi di poche materie come ad esempio la giustizia, che viene delegata ad organi esterni.
Ecco allora la legittima preoccupazione dei molti piccoli produttori nazionali. Non basta saper fare un prodotto buono o di qualità – ma la nicchia non premia mai a livello macroeconomico – se ci si deve poi confrontare ad armi impari con chi può mettere in campo una potenza di fuoco insostenibile. E non basta promettere che le produzioni nazionali saranno ancora più tutelate, circostanza che non corrisponde al vero: per stare nel settore dell’agroalimentare, ad esempio, i canadesi potranno continuare a smerciare un ambiguo ’Parmesan’ senza dover rispettare il disciplinare previsto per la produzione del vero Parmigiano Reggiano, denuncia il presidente di Col diretti, Roberto Moncalvo. Sempre nello stesso ambito sono rimasti fuori dal Ceta i tanti Dop e Igp della Puglia, privi dunque di garanzie di protezione da imitazioni di pessima levatura.
Dov’è allora la convenienza? Per il Made in Italy, nessuna. Con una fregatura in più: affossato – presumibilmente, stante la vittoria di Trump alle presidenziali Usa – il Ttip, questo ritorna dalla finestra. Le economie delle due grandi nazioni nordamericane sono infatti strettamente connesse, con decine di migliaia di società a stelle e strisce operanti in Europa (viceversa i numeri sono invece decisamente più contenuti) che hanno una filiale anche in Canada. Con un semplice gioco delle tre carte potranno dunque godere delle agevolazioni del trattato transatlantico, replicate pari pari nel Ceta, senza che il primo venga ratificato. Quando si dice Cavallo di Troia…
Filippo Burla