Roma, 07 ott – In questi giorni si è tornati a parlare di licenziamenti nei call center. Almaviva (uno dei più importanti player nel settore) ha annunciato: “L’apertura di una procedura di riduzione del personale, all’interno di un nuovo piano di riorganizzazione aziendale” che prevede “la chiusura dei siti produttivi di Roma e di Napoli ed una riduzione di personale pari a 2.511 persone riferite alle sedi di Roma (1.666 persone) e Napoli (845 persone)”. L’azienda giustifica la sua scelta a cause di esigenze di “contenimento dei costi, ottimizzazione del processo produttivo, efficientamento logistico e valorizzazione delle tecnologie proprietarie”. I sindacati sono sulle barricate, perché l’azienda si è rimangiato l’accordo fatto a maggio. Il governo, dal canto suo, per bocca del viceministro dello Sviluppo economico Teresa Bellanova ha chiesto: “di non andare avanti su una strada senza sbocco, frutto di annunci che appaiono come una vera e propria provocazione mentre è in corso un delicato confronto su più fronti. Si riporti la discussione ai tavoli di confronto preposti, si lascino da parte inutili e dannosi atti ricattatori e si ritorni al buon senso e alla responsabilità con cui invece tutte le parti devono lavorare per una soluzione condivisa e non traumatica”. Sembrerebbe una vertenza come tante altre. Purtroppo non lo è. Vediamo perché.
Le aziende come Almaviva lavorano sulla base di commesse assegnate loro con gare d’appalto. Qui scatta il meccanismo del massimo ribasso. Trattandosi di servizi (ad esempio un servizio clienti) l’unica leva su cui poter competere è il costo del lavoro. Le gare si ripetono a scadenza annuale. Non sempre c’è un solo vincitore. Spesso, infatti, i grandi committenti puntano su due o tre aziende che faranno a gara per mantenere i prezzi più bassi. La contrattazione collettiva, però, blocca questo meccanismo di selezione darwiniana. Quindi, per superare quest’ostacolo le aziende delocalizzano in paesi, dove la manodopera è a basso costo come l’Albania o la Romania. In questo contesto Almaviva è complice e non vittima di un sistema che ha contribuito a creare. Per comprendere quanto detto è necessario fare un passo indietro. Nei primi anni novanta le aziende che esternalizzavano erano pochissime. Se chiamavi l’Enel non ti rispondeva un operatore di Almaviva. Poi, con le liberalizzazioni, le grandi aziende affidavano a terzi il lavoro che prima veniva svolto in house. Dalle esternalizzazione alle delocalizzazioni il passo è breve. Oggi, infatti, con la scusa delle gare d’appalto “aggiudicate a tariffe del tutto incompatibili con il costo del lavoro”, le aziende creano delle sedi all’estero dove trasferire i lavoro che dovrebbero svolgere gli operatori italiani.
È vero le leggi non mancano, ma non bastano. Infatti, la legge n. 134 7 agosto 2012, sancisce il principio secondo cui “quando un cittadino effettua una chiamata ad un call center deve essere informato preliminarmente sul Paese estero in cui l’operatore con cui parla è fisicamente collocato e deve, al fine di poter essere garantito rispetto alla protezione dei suoi dati personali, poter scegliere che il servizio richiesto sia reso tramite un operatore collocato nel territorio nazionale”. Purtroppo, questo principio non basta a frenare la delocalizzazione. Anche la politica in questi casi è assente o peggio complice: basti pensare alle gare d’appalto delle info line del comune di Milano o Roma assegnate a prezzi di saldo. Eppure c’è un modo per rompere questo circolo vizioso. Bisogna, però, usare le armi del diritto. L’avvocato Ernesto Cirillo, esperto in diritto del lavoro, già due anni fa ricordava che: “Nell’appalto “endoaziendale” si configura l’intermediazione vietata di manodopera quando al committente è messa a disposizione una prestazione meramente lavorativa. Ciò anche se l’appaltatore non è una società fittizia, tuttavia si limita alla gestione amministrativa della posizione relativa al lavoratore, senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione lavorativa”. Questo è quanto si evince dalla sentenza n. 12357, pubblicata il 3 giugno 2014, la Sezione Lavoro della Cassazione. In breve la Suprema corte afferma in Italia il lavoro in affitto è vietato. I call center non possono diventare i motel delle grandi aziende. Quindi, le leggi ci sono manca solo la volontà politica di far rientrare nell’ alveo della legalità un intero comparto della nostra economia.
Salvatore Recupero