Longarone, 9 ott – La diga è ancora lì, altissima come un enorme spinnaker di cemento armato, divenuta una colossale lapide in memoria di quelle 1917 persone che invece non ci sono più, scomparse una sera di ottobre di 52 anni fa.
Longarone, Erto, Casso, toponimi entrati a far parte della memoria collettiva italiana da quella sera in cui un’onda di circa 150 metri generatasi dalla frana del monte Toc, superando la soglia della diga, spazzò la valle sottostante cancellando letteralmente il paese di Longarone dalla faccia della Terra.
Molto è stato scritto in questi anni su quella tragedia, e ancora di più è stato detto: libri, film addirittura spettacoli teatrali. E’ ancora difficile raccontare del Vajont nonostante sia passato mezzo secolo, ma la memoria va perpetrata, e oggi dopo così tanto tempo, forse si riesce ad essere obiettivi.
Era un’Italia diversa, in pieno slancio economico, nascevano i grandi colossi industriali, il benessere si stava diffondendo in tutta la società e il Paese aveva fame di energia; nasce l’Enel dalla fusione di diverse compagnie private e per la valle del Piave ha un progetto enorme: trasformarla in un immenso serbatoio idroelettrico sbarrando gli affluenti del Fiume Sacro alla Patria lungo il suo corso; tanti piccoli serbatoi che sommati avrebbero dato energia alla pianura veneta.
L’invaso più grande sarebbe stato quello del Vajont
Una stretta valle laterale dalle pareti quasi verticali che si affaccia nella valle del Piave davanti all’abitato di Longarone. La diga era, ed è, un prodigio di ingegneria. Quando fu ultimata, dopo alcune varianti in corso d’opera, era la più alta diga al mondo nel suo genere: 264 metri con struttura ad arco a doppia curvatura con una capacità di invaso di più di 168 milioni di metri cubi d’acqua. Costruita in soli due anni fu un vanto dell’ingegneria italiana, ed il fatto che nonostante la frana di quasi 300 milioni di metri cubi di roccia abbia retto alle colossali sollecitazioni di quasi 10 volte maggiori rispetto a quelle previste, è la dimostrazione della validità del progetto ingegneristico.
Progetto che però non tenne molto in considerazione i limiti dati da alcuni geologi del tempo. Perché ci fu chi rilevò e predisse quello che sarebbe avvenuto, e non solo il famoso Leopold Müller che fu chiamato ad effettuare studi approfonditi prima ed in corso d’opera. Alcune perizie, regolarmente depositate unitamente a studi su modelli in scala per prevedere la dinamica di una possibile frana, avevano sconsigliato di raggiungere una tale altezza dell’invaso, così come avevano previsto che la paleofrana del monte Toc si sarebbe riattivata, sebbene non se ne conoscesse esattamente la dimensione. Ma il problema fu che davanti a perizie contrastanti, la volontà politica scelse l’ipotesi meno pessimista, del resto gli interessi economici in gioco erano troppo elevati per bloccare e rivedere il progetto.
Quindi nonostante l’invito di alcuni geologi che sconsigliarono il raggiungimento di una certa quota di invaso, si procedette comunque alla prova di collaudo a quota 710 m.s.l.m. quando la quota di sicurezza stabilita era di circa 600 m. Così alle 22:39 di quel 9 ottobre, mentre si cercava di svuotare il bacino effettuata l’ultima prova di invaso che avrebbe permesso di ottenere la certificazione dell’idoneità della diga per la sua successiva vendita all’Enel da parte della società costruttrice (la SADE), dal monte Toc si staccò una frana di 300 milioni di metri cubi con un fronte di 2 km, che andando ad una velocità di quasi 25m/s risalì per quasi 160 metri sulla sponda opposta. L’acqua dell’invaso fu sparata fuori con un’onda gigantesca che dopo aver colpito, nel suo sciabordio, i paesi di Erto e Casso, oltrepassò il culmine della diga e si proiettò ad alta velocità, tenuta in piedi dalle strette e alte pareti della valle del Vajont, verso Longarone.
L’effetto sul paese bagnato dal Piave fu apocalittico: si stima che l’aria, spinta dall’avanzare dell’onda, abbia prodotto un’onda d’urto superiore a quella della bomba atomica di Hiroshima radendo al suolo Longarone ancora prima dell’arrivo dell’acqua carica di detriti. L’onda risalì il corso del Piave per alcuni km e poi, come una immensa risacca, ritornò verso valle: a Belluno era ancora alta 12 metri e a Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, poco più di due.
1917 persone perirono quella notte, ed i cadaveri di 400 di queste non furono mai ritrovati. Il peggiore disastro della storia d’Italia causato dall’uomo deve restare impresso nella memoria collettiva di questa Nazione, affinché l’enorme muro di cemento che ancora sbarra quella valle sia considerato un monumento a chi perse la vita quella notte ed un monito per chiunque si cimenti nella costruzione, piccola o grande che sia, di qualsiasi infrastruttura.
Ricordatevi, silenziosamente, del Vajont!
Paolo Mauri