Roma, 3 ott – In epoca di trucchi contabili per aumentare artificiosamente il Pil, forse non è un esercizio di vacua erudizione provare a ricordare qualche mente che in altri tempi aveva un’idea un tantino diversa dell’uomo e del lavoro umano, che è poi la caratteristica fondamentale che distingue il primo dalle bestie. Qualcosa che non può essere spiegato con la contabilità, ma solo con la fede e l’intelletto, due facce oltretutto della stessa medaglia. La domanda che dobbiamo porci in definitiva è: perché, salvo rare eccezioni, gli economisti sono del tutto incapaci di capire l’economia?
Ovviamente, si può partire dal più radicale, dal più italiano e dal più coerente filosofo di tutti i tempi, quel Giovanni Gentile così soavemente disprezzato da chi gli doveva tutto da essere poi diventato appannaggio di qualche decadente ciarlatore di futilità alla Severino o similari. Per Gentile è il soggetto che pone l’oggetto e, se questa affermazione può rivelarsi assurda da un punto di vista meramente empirico (non dipende certo dalla mia volontà se il fuoco scotta e l’acqua bagna), non lo è se si considera che la vita dello spirito non è altro che la Storia, di cui, appunto, l’uomo è il soggetto necessario. La Storia rimane quindi sempre aperta all’intervento volitivo e redentore dell’uomo, il quale si identifica con il suo proprio lavoro che non è una mera attività economica, bensì la messa in ordine dell’universo, del caos primigenio eppure tanto necessario nella costruzione di una civiltà. L’arte classica, il diritto romano e le scienze galileiane rappresentano i massimi esempi di come appunto la vita dello spirito si estrinsechi, in ultima istanza, in un atto libero di messa in forma dell’universo.
Si potrebbe altresì passare ad Heidegger che, prima della sua svolta decadente e nichilista aveva le idee molto chiare sul ruolo del Dasein (che poi è l’uomo) rispetto a tutti gli altri enti, essendo l’unico fra di essi dotato della capacità di porsi domande. Gli enti (tutto ciò che esiste) non sono altro che strumenti nelle mani dell’uomo per la realizzazione di un suo preciso progetto di portata storica. Interessante come un esistenzialista anti-umanista come Heidegger arrivi di fatto alle stesse conclusioni degli idealisti alla Fichte o Gentile, e persino degli spiritualisti cristiani o di veruni marxisti. Poi, certo, anche il buon Martin è finito a fare il critico inutile della modernità e della tecnica giustificando così l’esistenza di infiniti quanto futili postmodernisti (moda che fortunatamente morirà con Vattimo e Sloterdjick), ma non cambia la sostanza della sua geniale intuizione esistenzialista.
Persino più interessante è però la prospettiva di un oramai sconosciuto chimico russo, tal Vernadskij, il quale ebbe la straordinaria intuizione di distinguere fra geosfera (regno abiotico dell’inorganico), biosfera (la quantità degli esseri viventi) e la noosfera (mente umana). La portata del suo ragionamento è sconcertante: così come la comparsa della biosfera ha trasformato radicalmente la geosfera, per esempio con la comparsa dell’ossigeno molecolare nell’atmosfera ad opera dei primi batteri autotrofi, così la noosfera è destinata a plasmare la biosfera e la geosfera nell’ambito dello sviluppo economico, demografico e spirituale delle nazioni. L’evoluzione prevede un trasferimento di materia dalla geosfera alla biosfera, ed in modo analogo dalla biosfera alla noosfera, ovvero l’intervento dell’uomo nel mondo fisico non è un mero accidente ma la necessità fondamentale della nostra esistenza, a cui volenti o nolenti non possiamo sottrarci. Partendo dall’individuazione di principii dinamici come quello della migrazione degli elementi ad opera della biosfera, Vernadskij arrivò a teorizzare non soltanto la possibilità ma anche la necessità dello sviluppo di infrastrutture fisiche di base, da cui deriva, per esempio, la sua entusiastica adesione al programma nucleare sovietico ed il suo insistere sul ruolo dello Stato nello sviluppo. Nel piccolo, chi scrive ha sempre posto l’accento su questi precisi punti, rifiutando tutte le ideologie della morte e della decomposizione, che anziché spingere per incrementare sempre di più la produttività del lavoro (e quindi lavorare di meno guadagnando di più), spingono per il controllo delle nascite, la legalizzazione dell’eutanasia, il “rientro dolce”, l’aborto libero, l’espianto d’organi a cuore battente, la promozione di stili di vita sterili ed antisociali incentrati sulla “teoria di genere”, e via decadendo.
Torniamo alla domanda iniziale: perché gli economisti non capiscono l’economia? La risposta a questo punto è semplice: mancano delle basi antropologiche e filosofiche necessarie alla comprensione dell’uomo, idealisticamente inteso come soggetto della Storia.
E quindi, necessariamente, anche dell’economia, divenuta in pratica una branca della contabilità e non la massima espressione del dominio umano sull’informe, sul caotico e sull’inanimato che si estrinseca fondamentalmente nella realizzazione delle grandi infrastrutture di base che fungono da volano tecnologico ed occupazionale per la nazione intera.
Matteo Rovatti