Roma, 1 mag – Nella notte del 21 aprile 1927 (il Natale di Roma in cui era confluita la Festa del lavoro del 1° maggio) il Gran consiglio del fascismo approvò la Carta del lavoro, a conclusione di un iter in cui fu coinvolta, tra gli altri, anche la Confederazione sindacale fascista. Il testo della Carta, una ”summa” delle concezioni sociali del fascismo concepita dal sottosegretario (poi ministro) delle Corporazioni Bottai e dal guardasigilli Rocco, sanciva (dichiarazione III) la libertà di organizzazione sindacale, con la precisazione che solo i sindacati legalmente riconosciuti avevano il diritto di rappresentare le categorie di riferimento (lavoratori e datori di lavoro). La presenza di questo principio all’inizio del documento che fissava i cardini della dottrina giuslavoristica del regime può apparire paradossale, visto che uno dei pregiudizi più durevoli della “vulgata” antifascista è quello per cui, con Mussolini, si arrivò alla repressione dell’associazionismo sindacale e alla compressione di diritti e salari dei lavoratori; un’esegesi semplicistica, questa, che echeggia l’unilaterale interpretazione marxista del fascismo come strumento del padronato. Appare dunque opportuno correggerla ripercorrendo, con l’ausilio delle fonti riportate in bibliografia, la storia del sindacalismo del Ventennio e dell’ordinamento corporativo che ne rappresentò lo sbocco naturale.
Lavoro: dal sindacato alla corporazione
Il sindacalismo fascista vide la luce a Bologna nel 1922, con la costituzione di una Confederazione di sindacati (segretario Edmondo Rossoni) che facevano riferimento al movimento mussoliniano. Essi presero il nome di corporazioni, un termine che non significava ancora “organizzazione mista” di lavoratori e datori di lavoro (come gli organi corporativi istituiti più avanti), bensì organizzazioni delle sole maestranze delle imprese private, avendo il pubblico impiego, nella concezione fascista, uno statuto a parte (Gagliardi).
Queste corporazioni, che all’inizio degli anni ’20 vantavano mezzo milione di aderenti, saliti a 1.700.000 nel 1925 (Aquarone; De Felice), mirarono da subito a rappresentare la totalità delle masse lavoratrici, conseguendo l’obiettivo con il patto di Palazzo Vidoni (ottobre 1925), in virtù del quale Confindustria e Confederazione fascista si riconobbero a vicenda la rappresentanza esclusiva delle rispettive categorie. Il patto, seguito dalla legge dell’aprile 1926 che sanzionò il monopolio sindacale fascista, ebbe ripercussioni sulle organizzazioni non fasciste, che però non furono sciolte con la forza (come insinua la “vulgata”), ma che continuarono a esistere come “associazioni di fatto” (private della funzione di stipulare contratti collettivi), come fece la Confederazione generale del lavoro prima di sciogliersi nel 1927.
La legge del 1926, inoltre, proibiva lo sciopero (art. 18), dando l’impressione di non lasciare strumenti ai lavoratori per farsi valere di fronte alla controparte imprenditoriale. Si tratta, però, di un’impressione. Innanzitutto, l’articolo proibiva anche la serrata, prevedendo sanzioni per gli imprenditori che sospendevano il lavoro negli stabilimenti «per ottenere dai dipendenti modificazioni ai vigenti patti di lavoro». In secondo luogo (art. 13), la soluzione delle controversie collettive era affidata a un’istituzione terza: la magistratura del lavoro, le cui prime sentenze «furono sostanzialmente favorevoli ai lavoratori» (Aquarone).
Nella seconda metà degli anni ‘20 prese anche il via l’inserimento dei sindacati dei lavoratori nelle corporazioni vere e proprie, con le associazioni dei datori di lavoro. Questo passaggio al corporativismo fu, come anticipato, l’esito naturale del sindacalismo fascista, poiché solo nell’ordinamento corporativo poteva attuarsi il principio della collaborazione tra i fattori produttivi sancito dalla Carta del lavoro (come scrisse Bottai nel 1929, in “Gerarchia”, il sindacato «nella concezione fascista trova[va] l’integrazione necessaria all’esplicazione dei suoi compiti nella corporazione»). Alle corporazioni accennava già la legge del 1926, che prevedeva l’istituzione di “organi di collegamento” tra i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, pur mantenendo fermo il principio della rappresentanza separata delle categorie.
Un altro passo verso l’istituzione dell’ordinamento corporativo fu, nel 1928, lo “sbloccamento” della Confederazione di Rossoni, divisa in 6 confederazioni che corrispondevano alle 6 associazioni dei datori di lavoro. A prima vista lo “sbloccamento” potrebbe apparire un tentativo di limitare l’autonomia sindacale, ma in realtà l’intento era più politico; come spiegò Mussolini, oltre a rendere più efficiente l’attività sindacale, il provvedimento preparava il corporativismo, nella misura in cui l’ordinamento simmetrico delle confederazioni dei prestatori d’opera di fronte a quelle dei datori di lavoro era preliminare alla creazione delle corporazioni. Precedute dalla creazione del relativo ministero e del Consiglio nazionale corporativo, le 22 corporazioni (distinte per attività e cicli produttivi) furono istituite nel 1934, mettendo «[un] tetto all’edificio rimasto sino ad allora incompiuto» (Aquarone). Erano organi statali in cui venivano rappresentati datori di lavoro e lavoratori (le «associazioni collegate») e che, in virtù delle loro funzioni normative, consultive e regolative dovevano realizzare «l’autogoverno delle categorie produttrici, […] un’economia organizzata per opera degli stessi produttori, sotto l’alta direzione […] dello Stato» (Aquarone).
Un nuovo modello di rappresentanza
Ai sindacati dei lavoratori il regime riservò, comunque, anche un ruolo politico: costituire la base di un nuovo modello di rappresentanza parlamentare (richiesta di lunga data del sindacalismo fascista). Con la legge di riforma del 1928, infatti, si conferì alle confederazioni sindacali (insieme ad altre associazioni) il diritto di proporre 1000 candidati alla Camera, formando un elenco da cui il Gran consiglio avrebbe scelto i 400 inclusi nella lista dei deputati da sottoporre all’elettorato.
Con le elezioni del marzo 1929 si formò così un’assemblea nella quale entrarono, in rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori, 89 deputati (il 22,25% del totale). Per arrivare a un’assemblea di carattere autenticamente corporativo, che inserisse «le categorie del lavoro [..] fin nel circuito dell’attività legislativa» (Rimbotti), si dovette però attendere il 1939, quando fu istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni, a cui si accedeva in quanto membri di Consiglio nazionale del Pnf, Gran consiglio e Consiglio nazionale corporativo (che includeva i rappresentanti delle associazioni dei lavoratori).
Il sindacalismo del Ventennio: ombre, ma anche luci
Un bilancio del sindacalismo del Ventennio deve tenere conto di alcuni fattori, in primo luogo del collegamento organico tra sindacato e corporazione, poiché il sindacato «doveva vivere “in funzione” delle corporazioni» (Zunino), per cui il suo agire era finalizzato alla “collaborazione” e non alla “lotta” di classe, come nella tradizione socialista. In secondo luogo, la costruzione dell’edificio sindacal-corporativo, a cui si accompagnarono discussioni accese e in cui si scontrarono opinioni diverse alla Camera, a smentire il cliché di un parlamento fascista puramente decorativo (il dibattito del dicembre 1929 sulla riforma del Consiglio nazionale delle corporazioni, segnala Aquarone, «fu uno dei più impegnati e seri di quella legislatura, ricco di spunti polemici e improntato a una certa libertà di discussione e critica»), avvenne nel quadro del compromesso tra le istanze sociali del fascismo e la necessità di rassicurare il ceto imprenditoriale, essendo riconosciuto che la «più definita, consistente e omogenea sacca di resistenza frapposta al corporativismo [era] quella in cui si rinserrava la destra economica» ovvero gli ambienti dell’imprenditoria e dell’alta finanza (Zunino).
I sindacati fascisti – i cui dirigenti provenivano, in parte, da socialismo e sindacalismo rivoluzionario – fecero comunque il loro mestiere e la storiografia fornisce testimonianze di una certa vivacità sindacale nell’arco del Ventennio. Il periodo 1927-1936, nota Aquarone, fece registrare circa 1000 controversie collettive (buona parte delle quali non giunse al giudice del lavoro perché conciliate in altra sede), mentre De Felice spiega che, nella seconda metà degli anni ‘20, diversi scioperi furono promossi dai sindacati fascisti, al punto che si può parlare di «una vera e propria offensiva del sindacalismo fascista […] contro la Confindustria e il mondo industriale in genere» miranti a subordinare il mondo imprenditoriale al controllo sindacale (il comportamento dei dirigenti sindacali fascisti fu anche oggetto di lamentele in una lettera delle confederazioni padronali al segretario del PNF nel dicembre 1926). Non mancarono neppure casi di vertenze andate a buon fine, come il concordato per i metallurgici e meccanici del settembre 1924 (che, evidenzia De Felice, «costituì un successo dei sindacati fascisti»), o gli aumenti delle paghe di operai e impiegati ottenuti tra la fine del 1925 e l’inizio del 1926. Sempre De Felice scrive di un risveglio dell’impegno sindacale nella seconda metà degli anni ‘30, con il nuovo statuto della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria (1934) che sancì l’elettività di pressoché tutte le cariche e un’attività che, in più casi, riuscì a «ridurre e contenere la tendenza dei datori di lavoro a un progressivo sgretolamento dei livelli salariali». Non mancò, inoltre, la contrapposizione con il padronato sulle commissioni interne. L’istituzione dei fiduciari di fabbrica (per Aquarone «una delle principali rivendicazioni del sindacalismo fascista») fu ottenuta nell’ottobre 1939, con un accordo tra le due Confederazioni dell’industria (dei datori di lavoro e dei lavoratori) che impose agli industriali metallurgici e meccanici i fiduciari d’azienda nelle officine con almeno 100 dipendenti.
Se è infine vero che, negli organi corporativi e alla Camera, le organizzazioni dei lavoratori non riuscirono sempre a essere incisive (la loro rappresentanza fu affidata, più che a contadini e operai, a professionisti e intellettuali borghesi che, per carenze di formazione o distacco sociale dalle classi che dovevano rappresentare, si trovarono sovente in svantaggio di fronte alla compattezza della componente imprenditoriale), resta il fatto che, anche grazie ai sindacati, le classi lavoratrici godettero, nel Ventennio, di provvidenze che compensarono gli episodi di contrazione salariale legati, tra la seconda metà degli anni ‘20 e l’inizio dei ’30, alla rivalutazione della lira e agli effetti della depressione economica (per quanto, si legge in De Felice, «col ’36 stipendi e salari ripresero finalmente a salire; nel giro di quattro anni, quelli dell’industria aumentarono del 34-40%»). Come riconoscono, infatti, lo stesso De Felice e Aquarone, le masse lavoratrici trassero profitto dai diversi “benefit” (fino al quel momento pressoché sconosciuti in Italia) che componevano il lo “Stato sociale” fascista: le ferie pagate e l’indennità di licenziamento, la conservazione del posto in caso di malattia, gli assegni familiari, le casse mutue aziendali, le varie forme di assistenza dell’Opera nazionale dopolavoro.
Bibliografia
Alberto Aquarone, “L’organizzazione dello Stato totalitario”, Einaudi, 1995
Renzo De Felice, “Mussolini il fascista” (I-II) e “Mussolini il duce” (I), Einaudi, 1966/68/74
Alessio Gagliardi, “Il sindacalismo negato”, Academia.edu
Luca Leonello Rimbotti, “Il fascismo di sinistra”, Settimo Sigillo, 1989
Pier Giorgio Zunino, “L’ideologia del fascismo”, Il Mulino, 2013
Corrado Soldato
1 commento
Caro Corrado Soldato, apprezzo la tua conoscenza storica, ma non mi piace che tu la chiuda così. Devi anche pretendere di vedere definite l’è responsabilità delle decisioni, del fatto che gli scioperi non vengano pagati dal sindacato e non persi dai lavoratori, del fatto che i contributi dei sindacalisti valgono il 25/30 % in + dei contributi dei normali lavoratori , degli introiti e delle spese di questi. Basta col dimostrare di sapere, devi batterti per l’effettivo difesa dei diritti sociali, dell’abbattimento delle raccomandazioni ( che Agevolano l’incompetenza a favore di cosa? ( forse di consensi? Di sottoscrizioni?)
Pensa che Dio, nella Sua grandezza, con soli 10 Comandamenti segnava un comportamento sociale onorevole e giusto.
Guardati intorno e pensa!