Los Angeles, 4 mar- Ci eravamo lasciati con “La vita è bella”, ripartiamo da una citazione di Céline. La parabola del cinema italiano a Hollywood, dopo l’Oscar a “La grande bellezza”, può essere raccontata anche attraverso questo simbolico volo pindarico. Dopodiché, al solito, iniziano le discussioni sul perché e sul percome Paolo Sorrentino abbia portato a casa l’ambita statuetta.
Anche solo la fotografia di una Roma eternamente marmorea, imponente, estetizzante nei crepuscoli e nel sole che va a morire in un Tevere cenerino, sarebbero bastati a far vincere l’Oscar al film. Ma c’è di più. Chi ha avuto l’opportunità di vedere altre interpretazioni dell’attore protagonista Toni Servillo, anche e soprattutto a teatro, comprenderà il perché Sorrentino ne abbia fatto il proprio “feticcio cinematografico”.
L’espressività del volto, la mimica facciale e le rughe che sembra gli disegnino i sorrisi -e non viceversa- avrebbero potuto evitare all’attore partenopeo di dare fiato alla bocca. Sembra quasi ci sia un rapporto alchemico tra i due, che l’uno sia fatto per interpretare i film dell’altro, che Servillo possa andare in scena senza suggerimenti perché già sa dove vuole andare a parare il regista. Ma c’è di più: le musiche. La colonna sonora è un mix di becero “tunz tunz” nazional-popolare (il remix dance di Bob Sinclair del famosa canzone di Raffaella Carrà “Far l’amore”) che si scontra con la sinuosità e l’eleganza del “Kronos Quartet” e con le sofisticate sinfonie di Henryk Gorecki.
Lo stesso Sorrentino, assalito dai giornalisti subito dopo essere sceso dal palco, ha dichiarato che la scelta musicale per il film rappresenta un “mix di musica profana e sacra, così come Roma è capace di combinare il sacro e il profano”. Ed è proprio nell’intreccio tra sacro e profano che si snocciola la storia di Jepp Gambardella (il protagonista), lo scrittore napoletano che non si prende mai sul serio per non rischiare di appiattirsi nella sua indolenza; il dandy che con nonchalance d’altri tempi indossa capi di alta sartoria mentre osserva con sensibilità disincantata la tragedia umana alla quale è costretto a partecipare altrimenti non saprebbe cosa fare, ma che, a differenza dei co-protagonisti, non mente a se stesso. E’consapevole e impotente al tempo stesso. Annega nell’alcol e nella seduzione le riflessioni sull’alta borghesia romana condannata nei suoi squallidi riti, “macchiettizzata” nei trenini senza meta che affollano la sua terrazza con vista sul Colosseo, incapace di dare una forma al nulla che partorisce se non attraverso la chirurgia plastica.
Tutto questo, ovviamente, ha dato il via a quello che sembra lo sport preferito dell’italiano medio degli ultimi anni: il tifo da social network e la divisione tra i pro e i contro. E’ come se ci fosse un virus che innesta dei tic, questi sì borghesi e radical chic, davvero fastidiosi. Tutti esperti di cinema, tutti esperti di recitazione, tutti difensori di una presunta italianità che altri (come sempre mai se stessi) cialtroni vorrebbero celare mentre speculano sulle disgrazie nostrane. “Questa cose non esistono”, “Roma e l’Italia sono tutt’altra cosa”, “non ho capito il senso del film”.
Ammesso che ci sia qualcuno che abbia deciso che i film debbano essere obbligatoriamente “impegnati”, probabilmente Sorrentino di tutto ciò se n’è fregato o più verosimilmente ha voluto dare degli spunti riflessivi o, più “cineasticamente” parlando, ha dato forma a delle sue visioni personali. E questo, per gli esperti fai da te, non è lecito perché chi ha criticato il film in maniera improduttiva e per presa posizione probabilmente è imbottito di costruzione mentali, di archetipi materialistici che paradossalmente sono assolutamente lontani dal senso del reale.
Chi dice che gli scenari festaioli dei ricchi capitolini non sono veritieri, o vive su Marte o più semplicemente passa la giornata dietro lo schermo di un pc, magari dopo aver passato la giornata a lavoro, questo si, ma magari non curandosi di osservare e comprendere la comunità perché va bene ed è reale solo ciò che è vero ed è reale per il singolo individuo. Si fugge da ciò che è vero ed è reale per gli altri solo perché lontano da sé. Giusto o sbagliato che sia. Che poi, vai a vedere, quelli che criticano il film sono gli stessi che, quando si parla di tutt’altro muoiono di esterofilia mentre si accaniscono su un film. Brutto o bello che sia è sempre un film.
Sorrentino non ha avuto l’intento di dipingere da capo a fondo il Bel Paese, forse ha voluto trarne uno spaccato che potrebbe -questo sarebbe auspicabile e autenticamente italiano- indurci ad evadere i comportamenti artificiosi per ritornare a percepire la Bellezza e per farlo è necessario rispolverare l’istintività, far esplodere la sensibilità ed evitare di dare sfogo alle chiacchiere che sono sempre più volgari del senso.
Qui si sta parlando di un film che comincia appunto con una citazione di Cèline e che ha visto il suo regista emozionato ringraziare la propria famiglia e le proprie fonti d’ispirazione artistica con un inglese quasi maccheronico. A dimostrazione del fatto che per essere eccellenza italiana non è necessario mettersi in pari con la lingua più parlata al mondo, ma forse è necessario rimanere autentici e genuini e immaginare un film che solo due napoletani che vivono a Roma potevano partorire, perché abituati nel percepire la Bellezza e sinceri nel comprendere la tragica decadenza senza rinnegare né disprezzare alcuno.
Aurelio Pagani
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