- Nono capitolo di Italia Eterna, lo speciale del Primato sulle origini della nostra nazione. Le puntate precedenti: i Longobardi, la Disfida di Barletta, Dante e Petrarca, Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele di Savoia, Gian Galeazzo Visconti, Federico II di Svevia, Il Regnum Italiae di Berengario, Niccolò Machiavelli [IPN]
Roma, 25 mar – Personalità complessa e contraddittoria – ma senz’altro affascinante – Cola di Rienzo si proietta nello scenario drammatico dell’Europa del XIV secolo, dilaniata dalla peste e da conflitti militari di enorme portata come la “Guerra dei cent’anni”. Cola, come altri “grandi” del suo secolo – Dante (†1321), Petrarca (†1374) e Gian Galeazzo Visconti (†1402) – comprese la necessità storica di un’Italia unita, sotto una guida politicamente forte, al di là dei particolarismi locali e delle contrapposte lotte tra fazioni, ma pur sempre nel quadro della compagine più vasta rappresentata dal Sacro Romano Impero. Imbevuto di cultura classica fin dalla giovane età, Cola sapeva che era l’Italia, e soprattutto Roma, l’epicentro politico e religioso della Res publica christiana europea e, pertanto, soltanto dall’Urbe poteva partire quel processo di ricomposizione territoriale e politica della penisola che tentò di governare.
Roma tra Aquisgrana e Avignone
A metà del Trecento, però, Roma non era più la sede né dell’imperatore, né del papa, le due supreme guide politiche e spirituali del continente. Gli imperatori, infatti, pur consacrati dal pontefice in S. Pietro, non risiedevano più nell’Urbe dal 476 d. C. – cioè dalla “fine” dell’Impero romano – e la stessa autorità imperiale, fin dal X secolo, era prerogativa esclusiva dei sovrani di Germania – reges Teutonicorum – secondo la nota “ideologia” della translatio imperii – elaborata dalla corte tedesca – ovvero il “trasferimento” del potere imperiale, per volontà divina, dal popolo romano ai Teutoni. Pertanto, mentre la capitale dell’Impero era ad Aquisgrana o a Praga, il papa, dal 1305, risiedeva ad Avignone, in Provenza. Infatti, dopo la morte di Bonifacio VIII (1294-1303) e del suo successore, Benedetto XI (1303-1304), nel 1305 il conclave elesse pontefice l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, che assunse il nome di Clemente V (1305-1314). Guascone, di lingua e cultura francese, Bertrand si pose sotto la protezione del re di Francia Filippo IV “il Bello” (1285-1314) e, consacrato nel duomo di Lione, vi fissò la sua residenza fino al 1309, quando decise di stabilirsi ad Avignone, presso il locale palazzo episcopale. Clemente V, però, fu solo il primo di una serie di “papi avignonesi” e infatti la curia romana continuò a risiedere stabilmente in Provenza fino al 1377, quando papa Gregorio XI (1370-1378), decise di ritornare a Roma ponendo fine, così, a quel periodo della storia della Chiesa noto come “cattività avignonese”, in ricordo della permanenza in Mesopotamia degli antichi Israeliti, dopo il saccheggio di Gerusalemme perpetrato dal re di Babilonia, Nabucodonosor II (605-562 a. C.), nel 587 a. C.
Anche l’Impero attraversava allora un momento difficile, perché l’imperatore Ludovico IV “il Bavaro” (1314-1347) era entrato in conflitto con papa Giovanni XXII (1316-1334), successore di Clemente V, che non aveva riconosciuto la legittimità della sua elezione. L’imperatore non accettava alcuna ingerenza papale negli affari dell’Impero e pertanto, nel 1324, venne scomunicato. Alla bolla di scomunica che, comunque, non ebbe esiti concreti, Ludovico rispose col “manifesto di Sachsenhausen”, in cui affermava che la sacralità del potere imperiale – e la sua diretta derivazione da Dio – impedivano ogni subordinazione dell’Impero alla Chiesa e, quindi, la necessità dell’incoronazione papale. Ciò fatto, nel 1327, Ludovico scese in Italia e l’anno successivo, a Roma, si fece incoronare imperatore da un laico, il senatore Sciarra Colonna (†1329). Non pago di ciò promosse un piccolo scisma, designando papa il francescano Pietro Rainalducci da Corvara (†1333), col nome di Niccolò V. Tuttavia, nel 1330, Niccolò si dimise, facendo atto di omaggio a Giovanni XXII che lo trattenne ad Avignone, in una sorta di “dorata prigionia” fino alla morte, avvenuta tre anni dopo. Giovanni XXII attirò su di sé gli strali di non pochi intellettuali dell’epoca, che ne condannarono lo sfarzo e l’autocrazia, e che trovarono scampo presso l’imperatore, dopo essere stati scomunicati. Tra essi sono da ricordare il teologo francescano Guglielmo di Ockham (†1347) e il filosofo Marsilio da Padova (†1343), docente e rettore della Sorbona. Entrambi condannavano il potere temporale dei papi e promuovevano un ritorno della Chiesa alla povertà delle origini. Marsilio, nel suo Defensor pacis (1313), recuperando il pensiero aristotelico, fu uno dei primi a sostenere la naturale “politicità” dell’uomo, fondando l’origine e la legittimità dello stato su basi totalmente laiche.
Nascita di un tribuno
La lunga assenza dei papi avignonesi da Roma determinò la diffusione di uno stato di totale anarchia nell’Urbe, di cui profittarono le potenti famiglie romane (Orsini, Colonna, Savelli) per estendere e consolidare i loro domini. Anche il resto dello Stato pontificio (Umbria, Marche, Romagna) vide il consolidamento dei domini dei grandi signori (Montefeltro, Malatesta, Da Varano) che minacciavano l’integrità territoriale del Patrimonium beati Petri. È in questo contesto di totale marasma politico che emerse la figura di Cola di Rienzo. Cola – al secolo Nicola – era nato a Roma intorno al 1313-1314, nel rione “Regola”, dal taverniere Lorenzo Gabrini (Rienzo) e dalla lavandaia Maddalena. Trascorse l’infanzia ad Anagni, presso parenti, e tornò a Roma intorno al 1333, alla morte del padre, prendendo in moglie, a quanto sembra, la figlia del notaio Francesco Mancini.
Benché non si abbiano molte notizie al riguardo su questa fase della sua vita, è sicuro che, già ad Anagni, Cola abbia incominciato a leggere i “classici” della letteratura latina e abbia sviluppato quell’amore sviscerato per la storia di Roma e la civiltà latina – ovviamente contaminate da leggende medievali – che, alla fine, condizionò anche il suo agire politico. Cola, infatti, oltre che un uomo d’azione può, a buon diritto, essere definito un “intellettuale” – benché con i limiti imposti dai tempi in cui visse – in quanto capace di leggere e scrivere il latino, in prosa e versi, e di decifrare le iscrizioni antiche. La storia romana gli appariva come un patrimonio immenso di “spiriti magni”, di personalità grandiose, da cui poter attingere esempi che fungessero da modelli emulativi per la sua generazione, cresciuta in un’epoca tanto drammatica e infausta come il XIV secolo.
Ottimo oratore, Cola conosceva inoltre le Sacre Scritture ed aveva anche una buona infarinatura del pensiero dei “Padri della Chiesa”. Dotato anche di una buona conoscenza del “diritto romano” e di solida formazione giuridica – probabilmente acquisita presso la scuola notarile attiva nell’Urbe – ed entrato nella burocrazia municipale, Cola esordì politicamente nel 1343, poco dopo l’instaurazione, a Roma, di un nuovo governo “popolare” – retto dai tredecim boni viri – espressione della borghesia cittadina. Il senato romano, infatti, decise di inviarlo ad Avignone, a capo di un’ambasciata, per conferire col pontefice appena insediato, Clemente VI (1342-1352). Per bocca di Cola, il senato romano richiedeva al papa l’accettazione del nuovo regime politico, il suo immediato ritorno a Roma, assieme a tutta la curia cardinalizia, date le condizioni politicamente disastrose in cui versava la città, a causa delle angherie dell’aristocrazia, e l’indizione di un nuovo Giubileo – dopo quello del 1300, indetto da Bonifacio VIII – molto probabilmente al fine di procurare benefici finanziari alle casse cittadine e al suo sistema economico, grazie al flusso di pellegrini che l’Anno Santo avrebbe riversato nell’Urbe. La delegazione romana ottenne dal pontefice vane rassicurazioni riguardo il suo ritorno a Roma, ma conseguì il secondo obiettivo che si era proposta: il papa, infatti, riconobbe il nuovo regime “popolare”, indisse un nuovo Giubileo per l’anno 1350 e, con apposita bolla, fissò a cinquant’anni l’intervallo temporale tra ogni Anno Santo. Inoltre, Cola ottenne da Clemente VI l’ufficio di notaio della Camera Capitolina, uno dei pubblici funzionari più importanti dell’Urbe, preposto all’amministrazione del “fisco” della città e remunerato con uno stipendio di circa cinque fiorini al mese.
Il «colpo di Stato» di Cola di Rienzo
Cola tornò a Roma nel 1344 e, investito della nuova funzione, cominciò a farsi largo nel tormentato agone politico della città diventando uno degli esponenti di spicco del “partito popolare”, cioè della fazione cittadina che avversava i nobili e le loro prepotenze e che raggruppava elementi della borghesia produttiva e commerciale – saldamente organizzati nelle arti corporative – e quindi mercanti, artigiani, allevatori, coltivatori diretti appellati, nelle fonti dell’epoca, cavalerotti, mercatores, bobacterii. Alla fine, Cola si decise per l’azione violenta, per il “colpo di stato”: il 20 maggio del 1347, giorno di Pentecoste, il giovane notaio, appoggiato dalla “plebe” romana e da una parte del senato dell’Urbe, con l’ausilio di un guardia armata, si proclamò in Campidoglio “tribuno della Repubblica”, avocando a sé, per delega del popolo, i sommi poteri – potestas et auctoritas reformandi et conservandi statum pacificum Urbis et totius Romanae provinciae – al fine di combattere le prepotenze e gli abusi della nobiltà romana e “riformare” il comune, anche abrogando ed emendando gli statuti cittadini. In giugno, Clemente VI fu costretto ad accettare il fatto compiuto e investì Cola, per bocca del suo legato e vicario apostolico per Roma e lo stato pontificio, Raimondo de Chameyrac (†1348), vescovo di Orvieto, del titolo di rector Urbis et districti, con poteri estesi anche oltre il perimetro murario dell’Urbe, nel suburbio e nel contado. Pertanto, investito anche dal papa – signore di Roma – dei pieni poteri, ma sempre in accordo col vicario apostolico – che gli era stato affiancato – Cola costituì una “milizia popolare” arruolata su base rionale, cioè territoriale, composta di circa 1300 fanti e 360 cavalieri, che andò a costituire il “braccio armato” della sua rivoluzione e con cui ridusse alla ragione la riottosa nobiltà romana.
Le fortificazioni dei Savelli, dei Colonna e degli Orsini furono occupate e, in parte distrutte, sia nell’Urbe che nel contado, anche se il tribuno incontrò gravi difficoltà nella guerra intrapresa contro Niccolò e Giovanni Caetani, signori di Sermoneta, e contro il praefectus Urbi, Giovanni dei Prefetti di Vico, che fu privato del titolo prefettizio. Nel contado, Cola ridusse ogni velleità autonomistica di villaggi e città all’obbedienza nei confronti dell’Urbe, riuscendo là dove non erano riusciti neanche i rettori pontifici, imponendo l’ordine nelle province laziali della Tuscia, della Campagna e della Marittima. L’immunità fiscale della nobiltà fu abolita e i privilegi giudiziari – al riparo dei quali i nobili commettevano abusi – annullati, nessuno poté fregiarsi del titolo di dominus o legare a sé subordinati attraverso rapporti feudali. I ceti più disagiati furono tutelati col ricorso al calmiere sui generi di prima necessità e attraverso un vasto programma di assistenza sociale a vedove, poveri, anziani ed orfani. Nello stesso tempo, però, il tribuno promulgava decreti molto severi contro l’immoralità dilagante nell’Urbe, proibendo la prostituzione, il gioco d’azzardo, il consumo d’alcolici ma, a dire la verità, con scarsi risultati. Non pago di ciò, nel luglio del 1347, Cola iniziò a dare corpo al suo più ambizioso disegno politico: riunificare politicamente tutta l’Italia intorno a Roma e alla sua potestà.
Cola di Rienzo e l’unità d’Italia
Cola inviò ambasciatori presso tutte le città e le corti signorili italiane con l’incarico di rendere nota l’instaurazione del nuovo regime politico nell’Urbe e la convocazione – sempre a Roma – per il 1° agosto, di un’assise solenne, da lui presieduta, nel corso della quale avrebbe reso noto, ai rappresentanti di tutti gli Stati della penisola, il suo programma rivoluzionario. Inviò ambasciatori anche nel regno di Sicilia, allora sconvolto dalla guerra civile tra i due pretendenti Giovanna I d’Angiò (1343-1381) e Luigi I d’Ungheria (1342-1382). Il 1° agosto del 1347, dopo una veglia di preghiera, seguita da un lavacro purificatorio nella vasca del battistero di S. Giovanni in Laterano – lo stesso dove, secondo la leggenda medievale, fu battezzato Costantino I (306-337 d. C.) – nella cornice solenne della cattedrale dell’Urbe, Cola rese noto ai circa duecento partecipanti – in gran parte provenienti dall’Italia centro-settentrionale – che il consesso era stato convocato dietro suggerimento di esperti giuristi romani e “italiani” – membri del suo consilium – con l’obiettivo di perseguire salutem et pacem totius sacrae Italiae.
In una scenografia solenne, preparata con cura su suo suggerimento, il tribuno, adeguatamente abbigliato “alla romana”, cinto del cingulum militiae, fu consacrato “Cavaliere dello Spirito Santo” nel corso della messa e, poco dopo, assunse pubblicamente il titolo di Candidatus Spiritus Sancti miles, Nicolaus severus et clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis et tribunus Augustus, che andò ad aggiungersi a quello di tribuno. Cola dichiarò, al cospetto di delegazioni diplomatiche provenienti da tutta l’Italia, che solo il populus Romanus aveva, per diritto storico e per volontà della Divina Provvidenza, auctoritatem ac potestatem et iurisdictionem in toto orbe Terrarum e, pertanto, la potestà di eleggere gli imperatori. Con apposito decreto, Roma fu dichiarata “capitale” d’Italia – ben prima del 1870 – e dell’Impero che, quindi, da quel momento, avrebbe avuto in Roma e nell’Italia il proprio “centro di irradiazione”. In quella stessa occasione, Cola estese a tutti gli abitanti della penisola la civitas romana, rendendoli partecipi di un’unica Res publica. Secondo Cola – che, come si è detto, era imbevuto di cultura classica – l’Italia avrebbe riacquistato la sua unità politica solo sotto l’egida di Roma che aveva già unificato la penisola in età antica, un’unità venuta meno nel 476 d. C., con la “caduta” dell’Impero e le invasioni “barbariche”. Cola, dunque, era consapevole che l’unità della penisola c’era già stata ma che, una volta perduta, andava semplicemente ripristinata sotto la potestà dell’Urbe.
In che modo il tribuno concepisse quest’unità – definita, nel suo epistolario, come unitas, societas, unio – se, cioè, essa dovesse concretizzarsi in un ordinamento di stampo centralistico o federale, maggiormente rispettoso delle autonomie cittadine, non è dato di sapere. Unificata la penisola intorno all’imperio di Roma, secondo Cola anche gli imperatori, da quel momento, avrebbero dovuto risiedere nell’Urbe, e non più oltralpe, ed avrebbero dovuto essere eletti a Roma da un corpo elettorale costituito dal senato, dal popolo romano e da rappresentanti designati dai comuni italiani. Anche il papa sarebbe dovuto ritornare nell’Urbe, per esercitare nella capitale d’Italia e dell’Impero le sue funzioni spirituali, rinunciando totalmente ad ogni potere temporale, nell’ottica di una Chiesa cattolica totalmente riformata e restaurata nella “purezza” del cristianesimo originario. Il 15 agosto del 1347, nella cornice solenne offerta dalla basilica di S. Maria Maggiore, nel corso di una nuova assise, Cola si fece “incoronare” da alcuni rappresentanti del popolo romano con sei corone distinte – ciascuna delle quali, secondo il tribuno, rappresentava speciali valori cristiani o “pagani” – e si fece consegnare lo scettro e il globo crucigero d’argento, simboli della potestà imperiale. In quella stessa circostanza, il tribuno bandì, in tutta Italia, i membri delle fazioni guelfa e ghibellina e persino l’uso, nel lessico politico, di tali appellativi, e interdisse l’ingresso nella penisola di qualsiasi sovrano straniero che avesse obiettivi di preda o di conquista. Con questi provvedimenti, il disegno unitario di Cola apparve in tutta la sua chiarezza e, poco dopo, con apposito decreto, fu convocata una nuova assemblea, da tenersi a Roma, nella Pentecoste del 1348, alla presenza delle delegazioni diplomatiche di tutte le città italiane, con l’obiettivo di eleggere un nuovo imperatore che, molto probabilmente – ma ciò non è chiaro – sarebbe stato “italiano”. Non è da escludere, comunque, che Cola pensasse proprio a se stesso come possibile candidato alla corona imperiale.
Cola di Rienzo alla prova con la realtà
Purtroppo, la grandezza del disegno politico del tribuno era destinata a scontrarsi con la dura realtà e rimanere sulla carta perché, nonostante le “buone intenzioni”, mancò al tribuno soprattutto la forza militare per poterlo attuare. Inoltre, l’aver dichiarato decaduto il papa dall’esercizio del “potere temporale” – gladium sanguinis – a Roma e in tutto il territorio del Patrimonium beati Petri, in quanto ingiusta usurpazione delle prerogative che spettavano al solo imperatore romano, privò Cola anche dell’appoggio del pontefice di cui, fino ad allora, aveva formalmente goduto. Questi atti, infatti, impensierirono non poco Clemente VI che iniziò a considerare il tribuno un individuo pericoloso per la stabilità del dominio pontificio in Italia. Il papa, quindi, lo accusò di eresia e ne dispose la scomunica per bocca del cardinale Bertrando di Deux (†1355), nuovo legato pontificio e vicario apostolico a Roma.
Il ritorno alla “grandezza” della Roma antica – che comportava una limitazione dell’autonomia delle città italiane – la perdita del potere delle famiglie baronali, attraverso la distruzione delle rocche e la riduzione delle faide locali, il sostegno alla “plebe” romana, attraverso una politica di elargizione di generi alimentari e di sovvenzioni economiche, la lotta alla corruzione ecclesiastica per il “ritorno” del papa alla sua naturale funzione di capo spirituale della Cristianità, furono i pilastri del progetto politico di Cola che, inevitabilmente, si ritrovò contro una “coalizione” di interessi decisamente troppo forte da combattere. Inoltre, nessuna speranza di aiuto il tribuno poteva attendersi dall’imperatore Ludovico IV “il Bavaro” che, nonostante fosse in pessimi rapporti col Papato, morì proprio in quell’anno, lasciando il posto a Carlo IV di Lussemburgo (1346-1378), decisamente schierato dalla parte del pontefice. Nell’autunno del 1347, Cola intensificò la sua lotta contro i baroni romani. In settembre, il tribuno organizzò un convito in Campidoglio, cui furono invitati tutti i baroni dell’Urbe e del Lazio per una riappacificazione ma, appena giunti, furono tutti arrestati e condannati seduta stante a morte, sentenza poi annullata con un atto di clemenza studiato ad arte, ma che finì per irritare ancora di più l’aristocrazia romana che tentò la conquista militare della capitale.
Un impero «italiano»
In novembre, Cola conseguì l’ultima grande vittoria contro i nobili romani nella battaglia di Porta S. Lorenzo, e costrinse i baroni a rinunciare alla presa di Roma e a fortificarsi nelle rocche ubicate nel contado laziale. Ma il suo regime aveva i giorni contati. A dicembre, infatti, scattò il “piano pontificio” contro il tribuno che, rimosso dal vicario apostolico e scomunicato come eretico – aveva sostenuto l’illegittimità del potere temporale del papa – fu poco dopo rovesciato da una sommossa popolare pilotata dalla nobiltà. D’altronde, il suo autoritarismo aveva scontentato anche una fetta crescente del popolo romano. Dopo aver trovato rifugio in Castel S. Angelo, Cola fuggì da Roma nei pressi di Napoli, dove soggiornò per qualche tempo, per poi dirigersi sulla Maiella, dove fu ospitato da alcuni eremiti del posto – che simpatizzavano per le sue idee riformiste in campo ecclesiastico – e poi, nel 1350, andò in Boemia, a Praga, allora capitale dell’Impero, nell’ingenua speranza di trovare aiuto dal nuovo imperatore, Carlo IV, che invitò a scendere a Roma per ottenere l’incoronazione e ripristinare l’ordine. Carlo IV, però, su sollecitazione del vescovo di Praga, lo fece arrestare per eresia e, nel 1352, lo spedì dal papa, ad Avignone, dove Cola rimase fino al 1353, quando tornò utile ai disegni del nuovo pontefice, Innocenzo VI (1352-1362).
Durante la lunga prigionia a Praga (1350-1352), Cola ebbe una copiosa corrispondenza non solo con i suoi familiari, ma anche con alcuni sostenitori politici, come il cancelliere dell’Urbe, Angelo Malabranca, l’abate di S. Angelo a Roma e Michele, eremita di Monte S. Angelo, da lui conosciuto durante la permanenza sulla Maiella. Inoltre, sembra che durante la sua lunga prigionia, Cola non trascurasse gli studi e, infatti, si dedicò alla stesura di un commento al De monarchia di Dante Alighieri († 1321), opera politica per eccellenza del grande scrittore fiorentino. Di questo scritto, redatto in forma di note di commento al testo dantesco, permangono due manoscritti anonimi – copie dell’originale andato perduto – uno boemo e l’altro ungherese, risalenti, rispettivamente, alla fine del XIV e agli inizi del XV secolo. Attraverso l’analisi filologica della scrittura e del lessico – confrontati con quelli delle lettere del tribuno – e analizzando il contenuto del commento, si è pensato di attribuirlo, con un discreto margine di certezza, proprio a Cola. Il tribuno, quindi, mutuò buona parte del suo pensiero politico non solo dalla lettura dei classici latini, ma anche di Dante, soprattutto per quanto riguarda la funzione irrinunciabile dell’Impero come apportatore di pace. Cola, tuttavia, rispetto a Dante, concepiva l’istituzione imperiale in una prospettiva decisamente più “italiana” e “nazionale”, quindi meno universalistica. Anche nella visione della riforma della Chiesa – in capite et in membris – è percepibile un’influenza del pensiero dantesco e un influsso, altrettanto forte, delle aspirazioni riformatrici delle correnti francescane ereticali, connesse al movimento dei cosiddetti “fraticelli”, cioè dei Francescani che auspicavano una Chiesa più povera ed un’applicazione più rigida della Regola e che, perciò, avevano abbandonato l’Ordine.
Il ritorno a Roma la fine di un sogno
Nel 1352, giunto in catene ad Avignone, Cola fu trattenuto come prigioniero nel palazzo pontificio fino all’anno successivo, quando fu liberato per ordine del nuovo papa, Innocenzo VI, che pensò bene di servirsi di lui per ripristinare l’ordine nella “Città Eterna”, dove la situazione politica era diventata a dir poco incandescente, a causa delle prepotenze del baronato. Questa volta, però, Cola avrebbe goduto anche dell’appoggio militare della Santa Sede e sarebbe tornato in Italia non più col titolo di tribuno, ma con l’incarico di “senatore”, cioè come massimo magistrato dell’Urbe, investito di pieni poteri di governo. Per rientrare a Roma e vincere le resistenze dei nobili, Cola fu affiancato al legato e rettore pontificio per il Patrimonium beati Petri, cioè il cardinale Egidio Albornoz († 1367), incaricato, con un esercito, di ripristinare l’ordine in tutti i territori dello stato pontificio. Egidio Albornoz aveva alle spalle una carriera di tutto rispetto, in quanto era stato già cancelliere del re di Castiglia, Alfonso XI “il Giustiziere” (1312-1350), ed arcivescovo di Toledo, “primate” di Spagna e legato pontificio per la crociata contro i Mori e, in quella veste, aveva coordinato le operazioni militari della Reconquista. Il prelato-condottiero aveva adesso il compito di ricondurre alla ragione i signorotti locali dell’Italia centro-settentrionale (Montefeltro, Malatesta, da Varano) e di imporre l’ordine anche a Roma, domando le riottose famiglie del baronato e insediando come governatore pontificio e senatore Cola di Rienzo.
Attraverso il sostegno di un esercito composto da mercenari borgognoni, provenzali, lombardi, toscani e bolognesi, la missione del legato andò a buon fine e, il 1° agosto del 1354, il cardinale e Cola di Rienzo fecero il loro ingresso trionfale nell’Urbe. Da sottolineare che Egidio Albornoz continuò ad occuparsi dell’amministrazione dello Stato pontificio fino alla sua morte, nel 1367, e che, dieci anni prima, a Fano, aveva promulgato le Constitutiones Sanctae Matris Ecclesiae, un codice legislativo che riordinava tutta la normativa applicata nel Patrimonium beati Petri, destinato a rimanere in vigore fino agli inizi del XIX secolo. L’ingresso di Cola a Roma fu seguito da un’ondata di stragi e da una violenta repressione. L’ex tribuno, molto probabilmente, voleva vendicarsi dei suoi nemici che gli avevano procurato tante tribolazioni e, ben presto, divenne una “mina vagante” di cui fu necessario liberarsi. Il 29 agosto del 1354, Cola diede un altro segnale della sua crudeltà: ordinò l’arresto del capitaneus et vexillifer pontificio fra Moriale d’Albarno, comandante di una compagnia di militi al servizio del Papato e che aveva dato un contributo indispensabile al suo ritorno a Roma. Jean Montréal du Bar – questo il vero nome di fra Moriale – era un soldato di origine provenzale, già membro dell’Ordine monastico-cavalleresco dei frati Ospitalieri e che, dopo aver abbandonato l’Ordine, si era dato al “mestiere delle armi” come capitano di ventura, radunando una compagnia di circa seimila uomini – la “Grande compagnia” – in cui militavano anche i fratelli Arlembaldo e Brettone. Poco dopo il suo arresto, fra Moriale e i suoi fratelli furono fatti giustiziare per ordine di Cola, per motivi poco chiari. Probabilmente, il condottiero e i fratelli cominciarono ad avanzare pretese eccessive riguardo al loro compenso o, forse, furono uccisi per evitare a Cola la restituzione di un debito di 4mila fiorini d’oro che aveva contratto con loro. In compenso, la morte di fra Moriale consentì al senatore di impossessarsi di circa 100mila fiorini del tesoro della “Grande compagnia”.
La morte di Cola di Rienzo
Questa azione sconsiderata certamente non migliorò l’immagine di sanguinario tiranno che Cola andava costruendo intorno a sé, mentre ricominciava la ribellione dei baroni non disposti a sottomettersi di nuovo ad un uomo di cui, con tanta fatica, credevano di essersi definitivamente liberati. D’altronde, il senatore arrivò ad arruolare persino una guardia personale e, per risanare il debito pubblico, aumentò alcune imposte indirette – come quella sulla frutta e sul sale – che gravavano già da tempo sui consumi popolari. Le campagne militari da lui intraprese contro la nobiltà, inoltre, si rivelarono un fiasco, costringendolo a spese enormi, parzialmente compensate dalle nuove entrate fiscali. E così, l’8 ottobre, il popolo romano – per il quale, in passato, tanto si era prodigato – sobillato dai Colonna e dai Savelli, insorse contro Cola che fu bersagliato da una gragnuola di sassi, mentre tentava di parlare alla folla dal palazzo del Campidoglio. Abbandonato da tutti, mentre la rivolta si estendeva ai rioni cittadini di Ripa, Colonna, Trevi e Sant’Angelo, Cola tentò la fuga travestito da popolano ma, riconosciuto, fu linciato sul posto e il suo cadavere, orrendamente oltraggiato, fu esposto per qualche giorno presso palazzo Colonna e, poi, bruciato presso il Mausoleo di Augusto. La fine drammatica di Cola di Rienzo fu descritta, con particolari a dir poco truculenti, dalla Chronica Romana, un’opera storiografica in ventotto capitoli che ripercorre gli eventi compresi tra il 1325 e il 1357, scritta in volgare da uno studente di medicina presso lo Studium bolognese – conosciuto come l’“Anonimo romano” – che, probabilmente, fu testimone diretto di alcuni dei fatti narrati e che, quasi certamente, fu sostenitore entusiasta delle riforme del tribuno, da lui definito “uomo fantastico”.
L’uomo e il politico
La personalità di Cola di Rienzo fu senz’altro singolare: benché di origine “popolare”, fu animato da una solida cultura storico-giuridica e da una sincera passione per l’epigrafia e la numismatica. Impregnato di esaltazione intellettuale per la “romanità”, il tribuno fu pervaso dall’ideale imperiale e dalla convinzione dell’alta funzione che l’Impero avrebbe potuto svolgere in quei tristi tempi, eventualmente col trasferimento della sede dell’imperatore a Roma, relegando così il pontefice al solo ruolo di capo spirituale della Cristianità. Ottimo oratore, Cola fu anche un genio della “propaganda politica” e si servì abilmente dei mezzi che la sua epoca metteva a disposizione, come la pittura e la scultura che furono piegate a divulgare – soprattutto presso la “plebe” analfabeta – il suo “programma politico”. Infatti, molto spesso Cola fece esporre, nell’Urbe, presso i luoghi più significativi della storia cittadina, quadri o altre raffigurazioni, con cui intendeva “ammaestrare” il popolo, educarlo ad alti destini politici o spingerlo alla ribellione contro le ingiustizie della nobiltà. Si ricordi anche l’uso spregiudicato che Cola fece delle epigrafi romane, ad esempio della Lex de imperio Vespasiani – di cui era stata rinvenuta l’epigrafe bronzea nel 1347 – legge centuriata che sanciva il “diritto” del popolo romano – e non del papa – ad investire dei suoi poteri l’imperatore e che, a suo tempo, era stata utilizzata per conferire l’imperium a Tito Flavio Vespasiano (69-79 d. C.).
La sua figura fu ammirata anche dal Petrarca (†1374) che – è ormai assodato – rivestì un ruolo fondamentale nella sua liberazione, nel 1353, ad opera di papa Innocenzo VI, e nel suo rientro in Italia, per riconquistare Roma. Petrarca dedicò al tribuno un componimento poetico – l’ecloga Pietas pastoralis – ed ebbe con lui un’intensa corrispondenza epistolare. Tra le epistole indirizzate a Cola si ricordi l’Epistola hortatoria ad Nicolaum Laurentii, in cui il poeta incoraggiò Cola – appellato “novello Bruto” e “Spirto gentil” – a perseguire, con determinazione, il suo obiettivo politico di “unificazione nazionale”. La “fama” di Cola ha veramente attraversato il tempo fino all’epoca contemporanea. Nel XVIII secolo, all’epoca della Rivoluzione, i francesi videro in lui un campione delle libertà repubblicane contro la tirannide, mentre il Romanticismo ottocentesco lo esaltò come eroe libertario – si pensi al romanzo Rienzi, the Last of the Roman Tribunes (1835), dell’inglese Edward George Bulwer-Lytton († 1891) – e Richard Wagner († 1883) gli dedicò, nel 1842, il dramma in cinque atti, Rienzi, l’ultimo dei tribuni. I patrioti del Risorgimento italiano videro in Cola un anticlericale ante litteram, avversario del “potere temporale” dei papi, e anche il fascismo lo esaltò per il suo fervore rivoluzionario, in campo politico e patriottico, unito, però, anche ad un’attenta sollecitudine per i bisogni sociali dei ceti popolari.
Cola di Rienzo e D’Annunzio
Per il tribuno, ebbe parole di sincera ammirazione anche il medievalista tedesco Ferdinand Gregorovius (†1891), autore di una monumentale Storia della città di Roma nel Medioevo (1859-1873), in otto volumi, e che considerò Cola come un precursore, per molti versi, del Rinascimento, ma anche del Risorgimento. Uomo, dunque, in tensione, a cavallo tra due epoche storiche fondamentali, il Medioevo, per il fervore riformistico e religioso, e la Modernità, per il sentimento patriottico e civile. Gabriele d’Annunzio († 1938) dedicò al tribuno – cui, forse, come uomo politico e d’azione si sentiva “vicino” – un’appassionata biografia (La vita di Cola di Rienzo), pubblicata in rivista, nel 1905-1906, e poi in volume, nel 1913. La biografia dannunziana – certamente poco rigorosa, dal punto di vista della ricostruzione storiografica – doveva essere la prima di una serie di biografie progettate dal Vate (Vite di uomini illustri e di uomini oscuri) poi non più realizzate.
A D’annunzio, oltre che la personalità imperiosa di Cola, doveva probabilmente piacere anche quel carsico sentimento d’“unità nazionale” che il tribuno, dopo secoli di frammentazione politica e dominazioni straniere dell’Italia, era riuscito prepotentemente a far riemergere, piuttosto che i lati “plebei” e popolari del personaggio, così lontani dalla sua concezione aristocratica dell’esistenza. L’impresa di Cola di Rienzo e le sue idee, nonostante la mancata attuazione, rivelano l’anelito dell’uomo e del politico ad un’Italia unita, più forte e più giusta, disegno grandioso che, tuttavia, poté definirsi compiuto solo nel XIX secolo, al termine del Risorgimento. Il fallimento delle aspirazioni del tribuno, però, non ne compromettono la “grandezza” e ne fanno, ancora oggi, un degno “fratello” spirituale di Dante, Petrarca e Machiavelli.
Tommaso Indelli
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