Roma, 8 ago – «Coraggio, fratelli! Coraggio e fede! Vi state avvicinando alla fine del vostro martirio».
Il 7 agosto del 1915 – una mattina di cento anni fa – i cittadini di Trieste, allora sotto il dominio dell’Impero Austro-Ungarico, si videro piovere addosso migliaia di volantini con questo incitamento. Alzando gli occhi al cielo forse riuscirono a intravedere un biplano Farman con un inconfondibile motto scritto sulla fusoliera: Iterum Rudit Leo, il Leone ruggisce ancora. Trieste, ancora inconsapevole di essere in procinto di divenire un simbolo dell’Italia mutilata, assisteva al primo volo di guerra e al primo volantinaggio aereo di Gabriele D’Annunzio.
Il Vate era da poco rientrato in Italia, dopo un autoimposto esilio in Francia per sfuggire ai debiti ma anche a una crisi esistenziale che lo vedeva, lui traghettatore in Italia del SuperUomo nietzschiano, lui interprete della Volontà di Potenza arricchita di un estetismo estremo ma virile, a disagio in una nazione che definiva “Italietta meschina e pacifista”, dominata da burocrati liberali pavidi e attendisti.
Lo scoppio della Grande Guerra lo scosse: per lui, come per migliaia di giovani italiani, la guerra mondiale poteva essere finalmente l’occasione per temprare un popolo e forgiare una nazione che ancora doveva essere fatta, compiendo finalmente l’opera iniziata con la saga risorgimentale.
Rientrò in Italia, a Quarto, il 5 maggio 1915, proprio per partecipare al 55° anniversario della Spedizione dei Mille. E proprio da Quarto, con un suo celebre discorso rivolto ai «beati giovani affamati e assetati di gloria perché saranno saziati» e ai «beati bentornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma», D’Annunzio diede inizio a quel “radioso maggio” che lo vide protagonista insieme ai Fasci d’Azione Rivoluzionaria di Mussolini, De Ambris e Corridoni e che si concluse con l’ingresso in guerra contro l’Austria.
Lo stesso D’Annunzio, seppur cinquantanovenne, si offrì subito volontario per partire in battaglia. Ma, come una beffa, le alte sfere della politica impedirono al poeta abruzzese di partecipare attivamente alla guerra. Troppo alto il rischio di perdere una figura come la sua, si è forse pensato. Ma D’Annunzio, anticipando un sentimento che avrebbe contraddistinto la gioventù avanguardista del Fascismo vent’anni dopo, dopo aver minacciato di suicidarsi qualora gli fosse stato negato il diritto – perché tale per lui era – della prima linea, il 30 luglio 1915 scrisse indignato ai rappresentanti dell’Italietta meschina: “Io non sono un letterato in papalina e pantofole. Voi volete salvare la mia vita preziosa, voi mi stimate oggetto da museo, da custodire nella stoppa e nella tela da sacchi. Ebbene, ecco, io getto la mia vita solo pel piacere di contraddirvi e di gettarla“.
Una settimana più tardi, con tono di sfida e slancio beffardo e guascone, progettò il volo su Trieste.
Proprio quel volo fu l’inizio di una serie di imprese piratesche ed eroiche che caratterizzarono il Vate nella Grande Guerra. Nel settembre dello stesso anno parteciperà a un incursione aerea su Trento. Il 16 gennaio 1916 durante un’altra incursione aerea rimane ferito e perde un occhio eppure già a settembre, contro il parere dei medici, dopo aver constatato l’impossibilità di pilotare ad alta quota con un solo occhio, rientra al fronte partecipando all’incursione navale su Parenzo e poi, come fante, alla decima battaglia dell’Isonzo conquistando il Veliki.
Ma il suo cuore e il suo sguardo sono sempre diretti verso i cieli. Per un uomo che vuole sempre andare “più alto e più oltre” le battaglie aere sono un richiamo troppo forte. E già un disegno folle, impossibile e visionario gli fa breccia nella mente: volare su Vienna. D’Annunzio torna quindi a volare.
Tra l’8 e il 9 agosto del 1917 compie un’incursione aerea su Pola, al comando di trentasei velivoli Caproni, utilizzando per la prima volta il grido Eja Eja Alalà come incitamento di vittoria. Ma le sue imprese sembrano non sortire effetti sull’andamento generale della guerra. Nell’ottobre del 1917 la tragica sconfitta di Caporetto sembra essere ferale per l’Italia. Serve uno sprone che dia la scossa per trasformare la sconfitta in uno stimolo per risorgere. E ancora una volta entra in campo il Vate. Tra il 10 e l’11 febbraio del 1918 D’Annunzio si renderà protagonista di una delle pagine più belle della Grande Guerra italiana: tre motonavi MAS comandate dal poeta guerriero attraversano lo stretto di Farasina e a un miglio dalla costa spengono i motori e si addentrano nella baia di Buccari eludendo ogni difesa nemica. Dopo aver colpito alcuni piroscafi austriaci si dileguano nell’incredulità della marina imperiale.
La “Beffa di Buccari” ha una grossa eco in tutta la nazione: l’Italia non è ancora morta. Ecco lo sprone, il tizzone che fa riardere la brace che sembrava spenta. Finché divampa in un Fuoco quando, il 9 agosto dello stesso anno, il Vate compie finalmente l’impresa a cui si preparava da più di un anno. 11 Ansaldo S.V.A. dell’87ª Squadriglia Aeroplani, detta la Serenissima, compiono una trasvolata che li porta fino a Vienna. Nessuna incursione armata, nessun bombardamento, ma migliaia di volantini stampati su un tricolore inneggianti all’Italia. L’entusiasmo degli Italiani sale alle stelle mentre il morale austriaco inizia a vacillare. Vittorio Veneto dista poco più di un mese, così come la Vittoria che ha avuto nel Vate Gabriele D’Annunzio uno dei suoi più autorevoli sacerdoti-guerrieri.
Carlomanno Adinolfi
"Coraggio e fede": cento anni fa D'Annunzio volava su Trieste
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