Roma, 8 gen – Per poter ragionare sull’intervento armato in Libia occorre fare il punto della situazione che attanaglia quel paese e soprattutto analizzare le condizioni delle nostre Forze Armate.
Ci siamo già occupati in passato della questione libica e su come lo scellerato intervento militare volto a deporre Gheddafi abbia innescato quella guerra civile che ha dato mano libera alle milizie del Califfato Islamico; milizie che ora sono pericolosamente vicine ad impossessarsi dei campi petroliferi il cui controllo è stato il vero motivo che ha portato Inghilterra e Francia, con la regia degli Stati Uniti, a cominciare un’inutile “guerra per procura” nel 2011.
Lunedì scorso infatti l’Isis ha attaccato il porto di Sidra (As Sidr), località posta nel Golfo della Sirte circa 200 km a ovest di Bengasi e sede del più grande deposito di greggio della Libia. L’attacco, oltre ad aver chiarito che l’obiettivo del Califfato è il controllo della produzione di petrolio, come era avvenuto per la Siria, puntando verso i giacimenti di Marsa al-Brega, ha accelerato il risveglio dal torpore delle cancellerie europee, ed in particolare dell’inquilino del numero 10 di Downing Street che prontamente ha fatto sapere che metterà a disposizione un migliaio di soldati oltre a consiglieri militari del SAS per affiancare i comandanti dell’Esercito regolare libico nella “gestione tattica del campo di battaglia” coordinando truppe, aviazione, forze corazzate e navali.
Le truppe britanniche sarebbero uno degli schieramenti numericamente maggiori, insieme a quello francese e americano, che formerebbero il corpo di spedizione europeo forte di 6 mila uomini che sarebbe guidato dall’Italia. Secondo una fonte militare del Mirror: “Questa coalizione fornirà una vasta gamma di risorse provenienti dalla sorveglianza per iniziare le operazioni contro lo Stato Islamico che ha fatto progressi significativi in Libia”. Ci aveva già pensato il Presidente del Consiglio Renzi a frenare gli entusiasmi, e per una volta siamo d’accordo con lui anche se animati da una filosofia diametralmente opposta alla sua, quando il 6 dicembre scorso ha affermato che “L’Italia non deve rincorrere le bombe degli altri”; del resto la fretta, soprattutto quando si tratta di guerra, è sempre stata cattiva consigliera e per il caso libico questa antica massima potrebbe valere molto di più: da un lato infatti abbiamo un neonato Governo di intesa nazionale che ancora non si basa sul reale consenso delle molte tribù (e milizie) che compongono il tessuto sociale libico, e pertanto si corre il rischio che un intervento armato europeo “boots on the ground” possa venire propagandato, sia dal Califfato ma anche dalle tribù che non vedono di buon occhio il neo-eletto presidente Faiz al Siraj (fortemente sostenuto dall’occidente), come una sorta di neocolonialismo di stampo franco-britannico con l’aiuto del vecchio “invasore” italiano; dall’altro esiste la reale possibilità di impantanarsi militarmente in uno scenario di tipo afghano sia a causa della scarsa volontà politica di eliminare il Califfato ad ogni costo (la guerra ha sempre un costo politico che si riflette sul consenso interno, ed in questo un Paese come la Russia ha sicuramente più campo libero rispetto alle democrazie occidentali), che per lo spettro di una scarsa azione di intelligence effettuata in loco volta a garantirsi gli appoggi delle realtà tribali che sono così importanti nello scenario libico. Problematiche da affrontare e chiarire quindi, prima di un qualsiasi intervento armato.
Sulla questione della volontà politica di fare la guerra si articola la nostra critica più profonda in merito al possibile intervento italiano: per fare la guerra occorre essere consapevoli di andare in guerra; sembra un gioco di parole ma non lo è.
Il problema principale di tutte le “guerre” italiane infatti è sempre la politica. Per decenni ci siamo nascosti dietro terminologie e perifrasi politicamente corrette per non turbare la coscienza dei “pacifisti” di casa nostra: Somalia, Iraq, Afghanistan erano tutte “missioni di pace”; siamo sempre intervenuti “a cose fatte” per “pacificare” la regione o per “imporre la pace” (peace enforcement) perché la politica, che è la regia dello strumento militare, non ha mai avuto il coraggio di parlare apertamente di guerra, né tantomeno di prendere parte attivamente da subito (a ragione o a torto che sia non è questa la sede di dibattito) alle varie campagne militari a cui hanno partecipato altri paesi d’Europa e non.
Questo atteggiamento politico si riflette direttamente sullo strumento militare in almeno due modi: il primo è la definizione, di volta in volta, di regole di ingaggio che non lasciano la giusta libertà di azione ai nostri soldati e che, come nel recente caso libanese, arrivano a paradossi tali che un militare preferisca rinchiudersi dentro un mezzo e lasciare che venga depredato piuttosto che sparare per primo e dover poi affrontare la Corte Marziale; il secondo è la volontà politica di tutti i governi, sia di destra che di sinistra, di strangolare le risorse per la Difesa, vista da almeno 25 anni come un serbatoio di finanze alle quali attingere di volta in volta per tappare i buchi del bilancio, col risultato che per fare fronte alle missioni internazionali a cui partecipiamo si sia reso necessario operare tagli lineari alle risorse destinate all’innovazione e al mantenimento. Oltretutto l’apertura di un “nuovo fronte” in Libia porrebbe dei seri problemi di rotazione degli uomini e degli scarsi mezzi a disposizione, scarsità che non verrebbe colmata dall’industria militare proprio a causa della volontà politica di non aumentare gli investimenti nel settore della Difesa, settore che quindi si ritrova a dover fare i salti mortali cercando di razionalizzare e bilanciare i costi tra gestione e sviluppo, come abbiamo più volte ricordato in precedenza.
Insomma per “andare in guerra” occorre prima avere una mentalità “da guerra”, cosa che è sempre mancata all’Italia per colpa di tutta la classe politica che, a sinistra, ha sempre visto con fastidio e apprensione la presenza di Forze Armate ben addestrate ed equipaggiate, a destra, invece, ha sempre fatto proclami alla “Brancaleone” tagliando però massicciamente, ancora più della sinistra, le risorse finanziarie destinate alla Difesa; quindi prima di pensare a voler intervenire in Libia, cosa che sarebbe peraltro auspicabile, occorre essere davvero convinti di voler fare la guerra, senza mettere paletti, politici e non, controproducenti e pericolosi.
Paolo Mauri