Roma, 31 ott – Il premierato sarà l’ennesima riformina. Anzi la riformina delle riformine, visto che – ammesso e non concesso riesca a spuntarla – sarebbe la proposta di mutamento istituzionale che cambierebbe meno in assoluto rispetto a tutte le proposte degli scorsi decenni.
Premierato, gli articoli e le disposizioni
Come riporta l’Ansa, il cuore di tutto sta nell’elezione diretta del presidente del Consglio. Il ministro Elisabetta Casellati la chiama “la riforma delle riforme”. Tre articoli della Costituzione quelli toccati: l’88 sul potere del capo dello Stato di sciogliere le Camere, il 92 sulla nomina del premier e il 94 sulla mozione di fiducia e sfiducia al governo. L’idea è che il capo del governo venga eletto dai cittadini in un unico turno per un mandato di cinque anni e su scheda unica. Poi c’è un elemento che non ha nulla di strutturale, visto che è stato cambiato più volte, che è il sistema elettorale: in questo caso, si accoppia quindi alla riforma strutturale la legge di voto, per la quale sarebbe previsto un sistema elettorale maggioritario con un premio del 55% assegnato su base nazionale, il quale assicurerebbe il 55% dei seggi nelle Camere ai candidati e alle liste collegate al candidato premier eletto.
Il presidente della Repubblica? Grosso modo, lo stesso di prima. Perderebbe solo il potere di nomina del premier, ovviamente, ma manterebbe quello formale di conferirgli l’incarico. Continuerebbe ad avere la possibilità di nominare i ministri, giusto per non dare troppo – per non dire nulla – al capo del governo. Interessante è la norma “anti-ribaltone”: se un premier si dimette, il capo dello Stato può nominare un sostituto ma sempre collegato alla sua maggioranza, con l’obiettivo di scoraggiare lo scioglimento anticipato delle camere. Infine, il capo dello Stato perderebbe il potere di nomina dei senatori a vita, visto che essi stessi scomparirebbero con le prossime legislature.
Sarà la solita riformina (ammesso che venga approvata)
Sarà la solita riformina, già. L’ultimo tentativo forte era stato quello di Silvio Berlusconi nel 2006. Successivamente le uniche proposte erano – appunto – riformine, probabilmente percepite dai proponenti come più facili da far accettare, in un Paese dove appena si parla di maggiori poteri all’esecutivo si urla immediatamente alla deriva autoritaria. Il punto è che nemmeno la riformina ha storicamente dimostrato di poter passare. Si pensi a quella proposta da Matteo Renzi, con la fine del bicameralismo perfetto, i voti a data certa e il senato “abolito”. Non era una riforma che cambiava l’assetto parlamentare, ma che dava maggiori solidità agli esecutivi. Si sono fatte le barricate allo stesso modo. Quindi, niente da fare anche in quel caso. Difficile non prevedere uno scenario simile perfino adesso: ammesso e non concesso che si ottengano i due terzi dei voti in Parlamento, ipotesi che al momento pare discretamente impossibile. In ogni caso, allo stato attuale, la riforma Meloni cambia perfino meno della riforma Renzi. Visto che tutto si concentra esclusivamente nel voto di elezione del premier: gli equilibri di potere rimangono praticamente gli stessi. Con tutte le loro contraddizioni e impotenze politiche. Però chissà, nel giro di due riformine potremmo trovarci oltre al numero dei parlamentari già ridotto anche l’elezione diretta del premier. Insieme, generano una minima porzione di tutto ciò che sarebbe necessario fare. E tra altre dieci “riformine” potremmo avere un assetto istituzionale da “normali”. Come sempre, sarebbe certamente meglio del nulla.
Stelio Fergola