Roma, 30 dic – È un dato di fatto che Giorgio Locchi, probabilmente uno dei più potenti e originali studiosi non conformisti europei del secondo dopoguerra, resta ancora oggi un semisconosciuto nel suo stesso ambiente di riferimento. Anzi, senza la meritoria opera di Stefano Vaj, che ne ha tenuto vivo il ricordo per anni sulle pagine de l’Uomo libero, quasi sicuramente Locchi sarebbe stato consegnato a un oblio senza rimedio. Basti solo pensare che, dopo la pubblicazione di Wagner Nietzsche e il mito sovrumanista, uscito nel 1982, si è dovuto attendere più di un ventennio per vedere dato alle stampe un altro testo locchiano (Definizioni, nel 2006).
Le ragioni di questo atteggiamento sono molteplici. Alcune le ha ben chiarite Valerio Benedetti: l’opera locchiana è indubbiamente scarna, specie se paragonata all’alluvionale produzione scrittoria di altri autori, e ha quindi raggiunto un pubblico limitato di lettori; l’egemonia di de Benoist nel circuito della ‘nuova destra’ ha finito per oscurare e marginalizzare l’apporto “seminale e decisivo” (sempre Benedetti) di Locchi al Grece, soprattutto dopo che si era consumata la rottura tra i due; infine, il livello molto ‘alto’ della produzione locchiana indubbiamente richiede un pubblico selezionato. Accanto a questi motivi, c’è da registrare la più generale disaffezione per la filosofia presente nell’area destroradicale (o come la si preferisce chiamare). Solitamente, infatti, la filosofia in quest’ambiente viene derubricata o a forma tralignata e decaduta di conoscenza o a sterile e inconcludente chiacchiericcio.
Nei casi in cui viene invece valorizzata, accanto ai pochissimi esempi positivi (Sessa, lo stesso Benedetti, Di Dario, Boco, Melchionda, Scianca, per fare qualche nome) si leggono cose davvero sconcertanti, a metà strada tra la declamazione oratoria e il dilettantismo più spinto. Ma c’è di più: Adriano Scianca, in uno scritto recentemente comparso sempre sul Primato Nazionale, riguardante Guillaume Faye, ha evidenziato un punto della massima importanza e cioè che il pubblico di destra è “tendenzialmente abituato a sentirsi dire quello che vuole già sentire”, laddove Locchi, invece di strizzargli ruffianamente l’occhio, lo spiazzava con argomenti e tematiche complesse ed eccentriche rispetto alle solite cose circolanti nell’ambiente.
Per chiudere con queste brevi note, e a riprova di quanto detto sinora, segnalo l’ultimo numero della rivista neodestra Trasgressioni (il 61), dedicato appunto all’esperienza della ‘Nuova Destra’. Non si sa se per pittoresca ignoranza o per un caso meschino di damnatio memoriae, ma nei due saggi molto corposi che compongono il numero Locchi è praticamente ridotto a una sorta di desaparecido. In uno, cioè quello di Massimiliano Capra Casadio, non è citato neanche una volta, nell’altro, di Antoine Baudino, in cui si ritrovano praticamente tutti i nomi possibili e immaginabili, Locchi è citato due sole volte, anche se perlomeno in contesti significativi, vale a dire come una ‘vittima’ della ”volontà di Alain de Benoist di evitare qualunque concorrenza intellettuale interna” alla Nuova Destra (p. 72) e come colui che ha suggerito al Grece l’egualitarismo come nemico principale (p. 65). Resta il fatto che anche così si perpetua il silenzio su un autore che meriterebbe, e non da oggi, ben altro destino.
Giovanni Damiano
Un desaparecido nelle celebrazioni della Nouvelle Droite: Giorgio Locchi
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