Roma, 20 nov – L’assassino di Giulia Cecchettin non dovrà mai più vedere la luce del giorno. Se non da un cortile carcerario recintato, ben si intenda. Il caso di cronaca nera che ha scosso coscienze e turbato gli animi negli ultimi giorni necessita di una presa di posizione chiara su questo punto. Perché troppo spesso si sente parlare di funzione riabilitativa del carcere o di perdono. In realtà non è nostra intenzione negare nessuna delle due cose, ma solo far riflettere sul buon senso pratico di chi, come un poliziotto o un giudice, ha il dovere primario di difendere la comunità. Parleremo di “assassino di Giulia” in toni generici, in realtà le probabilità che non si tratti dell’ex fidanzato Filippo Turetta sono ridotte davvero al lumicino, viste le prove video emerse prima della sua fuga in auto dopo l’agghiacciante assassinio. Ma insomma, formalmente, rispetteremo l’iter processuale come è giusto che sia.
Giulia Cecchettin, l’assassino dovrà vivere il resto della sua vita in carcere
No, non può esistere alcuna buona condotta. Non può esistere alcuna riduzione della pena. Ad essere messo in primo piano è un solo principio, quello del bene della comunità. Turbata, distrutta da un atto ignobile, di una gravità unica. Sorvoliamo pure sugli “uomini che chiedono scusa” per gli atti del signor Filippo Turetta: non sono degni di essere chiamati uomini esattamente quanto lui. Oppure dobbiamo dedurre che abbiano degli scheletri nell’armadio pure abbastanza gravi. Gli uomini per bene non hanno alcuna ragione per chiedere scusa per colpa di un viscido violento e sanguinario. Se lo fanno, il problema in loro stessi può essere molto serio, e forse troppo lungo da analizzare in questa sede.
Torniamo quindi al bene supremo, insidacabile, intangibile della comunità. Alla sua sicurezza, qualcosa che conta di più di qualsiasi altra suggestione, qualsiasi discorso su presunte buone condotte, qualsiasi empatia per le eventuali condizioni di salute precaria o qualsiasi eventuale pentimento di un detenuto. Tutto. Almeno fino a quando non disporremo della tecnologia per leggere nel pensiero (iperbole, chiaramente), chi distrugge una vita, per giunta in modo così barbaro, non deve rivedere la luce del sole mai più se non da un cortile carcerario. Chi parla di vendetta semplicemente non capisce di cosa stiamo parlando. Chi commette un atto così grave non può non subirne le conseguenze a vita, in termini di libertà personale. Proprio perché qualsiasi perizia psicologica non ci può dare alcuna certezza sulla sua mancata pericolosità in futuro.
La funzione di recupero del carcere e il perdono
Anzitutto, perdonare non vuol dire essere stupidi o masochisti. Non è un atto materiale, ma interiore ed umano. Si può senza dubbio perdonare anche il più efferato degli assassini, ma non gli si può “concedere” alcunché di ciò che ha perso per la responsabilità delle sue azioni. Perdonare non significa restituire ciò che si è perso a causa delle proprie azioni. Su tutto, la libertà. Se il signor detenuto soffre di gravi problemi di salute, il principio guida deve essere di offrirgli un carcere in grado di curarlo, non di fare le campagne fuori dalla struttura per concedergli di uscirne. Il recupero del signor detenuto dovrà essere anzitutto umano, non incarnato in qualsivoglia restituzione di “qualcosa”. Potrà studiare, potrà laurearsi, potrà lavorare per lo Stato. Potrà ricominciare ad essere un uomo. Con la gentile cortesia di non uscire mai più da una struttura detentiva. Perché, con tutto il dovuto rispetto per il suo recupero umano, esso non può andare a inficiare con le proprie responsabilità e con la sicurezza presente e futura di altre persone come Giulia Cecchettin.
Stelio Fergola