Roma, 24 dic – Perché l’amicizia “maschile”? Perché è un sentimento, un rapporto, spesso slegato dal “pathos” e più legato all’etica (anche all’epica, al condividere battaglie vere o immaginarie) e alla lealtà. Elementi che assumono un carattere preponderante rispetto alla “fedeltà” sentimentale propriamente detta, quella dell’esclusività e della possessività, in maggior misura legate alla sfera femminile. Questo particolare legame, una forma di cameratismo, ha ispirato alcuni dei film più belli della storia. Infatti, più che con la parola scritta, questa particolare amicizia è meglio espressa con le immagini, con i silenzi, con le intuizioni che solo un’opera cinematografica può mettere in pratica.
5) “Non essere cattivo” di Claudio Caligari (2015).
E’ il 1995, siamo ad Ostia (teatro caro al regista romano sin dai tempi di “Amore Tossico”). Vittorio e Cesare sono amici, quasi fratelli, condividono tutto: alcool, droga, scorribande, vita ai limiti nella borgata. Poi Vittorio decide di cambiare registro, di “sistemarsi” nonostante le resistenze del suo miglior amico. La crescita e l’allontanamento fisiologico dei due amici che ne consegue sono, in questo film, trattati in maniera delicata e mai banale. Ma è anche una lezione su come, nonostante il passaggio degli anni e le diversità diametrali, un’amicizia rimane tale anche davanti a conseguenze estreme.
4) “L’ultima corvè” di Hal Ashby (1973).
Meadows, un giovanissimo marinaio (Jack Nichsolson) è scortato da due sergenti della Marina Americana attraverso l’intero Paese. Destinazione: un centro di detenzione. Il ragazzo è infatti stato condannato ad otto anni di carcere per il furto di una irrisoria quantità di denaro. Durante questo viaggio, però, i due militari stringono una particolare e protettiva amicizia con il giovane, intuendo che più che di un astuto ladro si tratta di un ingenuo reietto della società. E così gli concedono questa ultima “gita” tra bar, donne e camere d’albergo. Il film è una commedia, il finale è amaro: qui la solidarietà tra uomini ha la caratteristica di essere compassionevole nei confronti di un commilitone più inesperto e semplicemente più sfortunato.
3) “Il cacciatore” di Micheal Cimino (1978).
Sei amici, sei operai di acciaieria, compaesani. Dividono il tempo tra lavoro, bevute al bar e la caccia al cervo (da qui il titolo originale del film, “The Deer Hunter”). Tre di loro sono in procinto di partire per la guerra in Vietnam. Uno di loro, Steven, si sposa poco prima di partire: durante la festa del matrimonio, i tre si promettono che mai abbandoneranno un amico durante la guerra. In Vietnam vengono catturati da un manipolo di Vietcong e sottoposti a torture indicibili tra cui la celebre “roulette russa”. Rocambolescamente riescono a fuggire. Steven rimane irreparabilmente invalido; Nick sparisce nelle viscere di Saigon. L’unico a tornare a casa è Michael (Robert De Niro) che stenta a reinserirsi nella vita civile. Dopo aver scoperto il luogo di ricovero di Steven, tenuto ben nascosto, Michael parte alla volta di Saigon, ora un inferno più che mai, per ritrovare l’ultimo amico perduto, tenendo fede alla promessa fatta prima della guerra. Il capolavoro di Cimino è un inno all’amicizia maschile, alle promesse tenute in piedi mentre il mondo crolla. Un dettaglio: l’attore John Cazale, malato di tumore, non avrebbe potuto partecipare alle riprese del film: nessuna società intendeva assicurarlo per via della malattia. Robert De Niro pagò quanto necessario pur di farlo recitare. Fu il suo ultimo film. Morì poco dopo la fine delle riprese.
2) “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman (1975).
Salem, 1963, ospedale psichiatrico: arriva il paziente Randle Patrick McMurphy (di nuovo Nicholson). Mc Murpy è sotto osservazione: i medici devono capire se il paziente “finge” di essere pazzo o è pazzo davvero. Nonostante questo controllo l’uomo è restio ad accettare le regole dell’ospedale. Colpito dal trattamento riservato ai suoi amici “pazienti” cerca di ribellarsi alle assurde e rigide regole seguite dall’algida infermiera Mildred. Mc Murphy combatte perché a questi malati mentali venga di nuovo riconosciuto il diritto allo svago, anche il diritto alla loro stessa follia, il diritto, insomma, ad essere di nuovo uomini. Il paziente che viene più colpito da questa lotta di Mc Murphy è il “Grande Capo” Bromden, un gigantesco pellerossa, che si rifiuta di parlare. Proprio lui, quando la società e il sistema avrà schiacciato McMurphy avrà l’ultimo, immenso, gesto di amicizia e di liberazione per l’amico che gli ha instillato di nuovo il coraggio e la speranza della fuga. I pazienti di Salem sono un esempio “limite” di uomini “costretti” insieme che ritrovano la propria dignità attraverso il cameratismo, in una battaglia contro un nemico comune. Il nemico è non a caso un’infermiera che è anche un simbolo, se vogliamo, di un femminismo isterico, positivista e “boldriniano” in contrapposizione alla follia dionisiaca e felicemente animalesca dei pazienti psichiatrici.
1)“I Duellanti” di Ridley Scott (1977).
Francia, epoca napoleonica. Il tenente ussaro Armand D’Hubert è incaricato di comunicare lo stato d’arresto al suo pari grado, ma di umili origini, Gabriel Féraud. Per fare ciò D’Hubert è costretto ad interrompere l’“incontro galante” con una signora del commilitone. Immediatamente, quest’ultimo sfida il tenente a duello per l’offesa subita. Da questo momento in poi, tenendo fede al codice d’onore, ogni volta che si incontreranno, sullo sfondo degli eventi bellici delle campagne napoleoniche, i due sono tenuti a sfidarsi a duello fino a che uno dei due non morrà. D’Hubert è restio a questa logica, è attaccato alla vita, ma comunque vi si piega: Féraud è implacabile, nel duello e nella vittoria c’è il suo scopo di vita. Fedele a Napoleone, dopo la sconfitta di Waterloo cadrà in disgrazia e verrà condannato a morte. L’eterno nemico D’Hubert però si prodiga affinché il suo nome venga cancellato dalla lista dei condannati. In questo modo i due potranno avere l’ultimo, estremo, duello. E’ difficile spiegare come questa pellicola si sia guadagnata il primo posto della classifica senza poterne raccontare il finale. Quello che si può dire, però, è che in questo film viene raccontata la forma più alta di amicizia, intesa come senso comune di onore: quella che si deve al nemico. All’uomo che, sfidandoci, ci spinge a sua volta ad oltrepassare i nostri limiti, le nostre paure, rivelandoci una lealtà, una caparbietà che non sapevamo di avere.
Ilaria Paoletti
2 comments
“il Cacciatore” diretto peraltro da un regista italo-americano, forse è il film di DESTRA per eccellenza;capolavoro assoluto ed inarrivabile.
questa pellicola è piena di spunti ideologici; ad esempio quando De Niro rimarca che per uccidere un cervo devi usare solo e soltanto una pallottola (in modo da controbilanciare il pregresso vantaggio da parte di colui che spara, nei confronti dell’animale);
oppure quando De Niro nega perentoriamente i suoi anfibi all’amico “no global”; essendo quest’ultimo una persona adulta perfettamente capace di intendere e di volere, il non voler rimediare alla sua cialtronaggine è una maniera di evidenziare la sua piena dignità di UOMO, non assistendolo quindi alla guisa di un bamibinone viziato.
“uccidere o morire in montagna o nel Vietnam è esattamente la stessa cosa, ma deve succedere lealmente;Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo, il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale.”
Bell’argomento. Peccato per la preponderanza dei film del dominatore culturale.