Roma, 16 gen – La bocciatura dell’accordo sulla Brexit da parte del Parlamento inglese dimostra due cose: la prima, molto grave, è che si vuole sovvertire una volta di più la volontà popolare; la seconda, molto preoccupante in chiave futura, è la totale mancanza di responsabilità da parte delle opposizioni e di parte della maggioranza. E se è ben comprensibile come le opposizioni cerchino di dare la spallata al governo di Theresa May, risulta assai ardua comprendere il motivo per cui più di 100 franchi tiratori abbiano voltato le spalle alla leader britannica, non capendo (o semplicemente infischiandosene) la portata.
Fatto sta, in ogni caso, che questo voto, ora, complica il percorso di uscita dall’Unione europea. Di fatto, ora, la Gran Bretagna rischia un’uscita senza accordi che rischia di avere importanti ripercussioni sull’economia britannica. Sarà per convinzione personale, sarà per un cieco egoismo, ma il no deal ora rischia di diventare un fardello pesante sulla “coscienza” di chi, ieri, ha deciso di sovvertire la volontà popolare sancita con il referendum del 23 giugno 2016.
Il tentativo dei laburisti appare abbastanza chiaro: bocciare l’accordo Brexit, sperare nella sfiducia a Theresa May, andare al voto e bloccare il percorso di uscita dall’Unione europea o attraverso una richiesta di dilazione o ritirando l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Tutto entro il 29 marzo, data in cui è prevista il definitivo allontanamento automatico della Gran Bretagna dall’Unione europea.
Le prime dichiarazioni dopo il voto di ieri, tuttavia, fanno pensare ad un processo irreversibile. Secondo Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, “l’accordo non verrà rinegoziato, nemmeno per quanto riguarda il confine irlandese, rendendosi disponibile, tuttavia a “discutere su come facilitare la ratifica dell’accordo da parte del Regno Unito”. Le parole del presidente del Consiglio europeo, non lascerebbero spazio ad alcun dubbio, quindi, sull’irrevocabilità della decisione britannica.
E’ evidente che quello dei laburisti risulta essere un tentativo disperato e che la possibilità che si pervenga ad un no deal piuttosto che accettare un (tutto da dimostrare) bad deal rischia di avere conseguenze pensanti per la Gran Bretagna. Il tutto con importanti responsabilità politiche e morali. Una su tutte, con quello che poi ne discende, è quella di cercare di sovvertire la scelta dei cittadini britannici che molto chiaramente si sono espressi col referendum.
Il 51,89% degli elettori, con picchi importanti proprio nel cuore dell’Inghilterra, infatti, hanno detto chiaramente che in Europa non ci vogliono più stare. E poco conta, in questo caso, la volontà dei laburisti perché altrimenti si rischierebbe di mistificare l’essenza stessa della democrazia. E se per alcuni, una seconda consultazione sarebbe legittima, per molti sarebbe un tradimento della democrazia. Col rischio ulteriore che una scelta simile divida ulteriormente il Paese se dalle urne dovesse uscire nuovamente una maggioranza assoluta per il leave.
Ma la questione, più che politica, rischia di diventare giuridicamente dogmatica. Immaginiamo, solo per un momento, che ogni qual volta ad una parte politica non piaccia il voto popolare, ci sia la possibilità di chiedere una nuova consultazione, come se l’elettore, la prima volte, fosse stato così sprovveduto da aver votate senza una reale cognizione della portata della decisione.
Questo aprirebbe le porte ad una considerazione non peregrina, se vogliamo: la democrazia è giusta fino a quando il popolo non esprime un voto “scomodo” o non condiviso. Detto alla Mark Twain: “Se le elezioni servissero a qualcosa, non ce le lascerebbero fare”.
Ma è veramente questa la direzione che vuole seguire il Parlamento inglese?
Di più. Quello di ieri, per i labour è stato un voto completamente travisato nelle intenzioni e nei contenuti. Ieri, infatti, più che un giudizio sugli accordi stretti dal primo ministro Theresa May, si è voluto dare un voto (l’ennesimo) sulla Brexit. Con buona pace, una volta di più, della volontà dei cittadini britannici. Il senso di responsabilità, da parte dei laburisti inglesi, imporrebbe maggiore ponderazione sulla loro azione. “Far saltare il banco” per attribuire ogni conseguenza a chi ha votato per il leave risulta troppo comodo, e, per certi versi, pericoloso perché lascerebbe la Gran Bretagna senza alcuna tutela internazionale.
Forse siamo davanti al fatidico “muoia Sansone con tutti i filistei” o forse, quella dei laburisti, è solo una “spallata” al governo May. Ma in entrambi i casi, si tratta di una scelta egoista e irresponsabile che rischia di esacerbare gli animi dei leave.
Bene fa quindi Theresa May a “rassicurare il popolo britannico, che ha votato per lasciare l’Unione europea nel referendum di due anni fa. Ritengo che sia mio dovere portare a compimento quelle istruzioni: e intendo farlo”. Ora più che mai c’è bisogno di rassicurazioni e non di divisioni.
Mal si comprende, quindi, l’atteggiamento di chi oggi gongola fuori dal parlamento o sulle colonne dell’Espresso arrivando addirittura a parlare di “suicidio politico” perché, se di suicidio si vuole parlare, allora bisogna porre l’attenzione al rischio no deal.
Francesco Clun