Roma, 6 set – I sondaggi non aiutano a dipanare la matassa: cosa ci attende dalle elezioni legislative che si terranno all’inizio del prossimo anno? Un trionfo dei Cinque Stelle? Larghe intese? Improbabili coalizioni che per salvare quel minimo di coerenza daranno vita a litigi infiniti capaci di far saltare esecutivi come mosche? Oppure – perché no – una nuova riedizione di governo tecnico?
Quest’ultima non sembra solo una possibilità, ma proprio un auspicio. Almeno per Citigroup, banca d’affari americana impegnata a cercare di capir qualcosa in un quadro che definire fluido è fargli un complimento. In un rapporto del 4 settembre, reso noto da Fiorina Capozzi del Fatto Quotidiano, gli analisti si interrogano sulle prospettive per l’Italia, in un quadro che risente ancora grandemente delle difficoltà legate alla crisi economica. Quale soluzione sarebbe dunque la migliore? “Un parlamento senza maggioranza”, si legge. Cioè un governo a tempo, alias governo tecnico, incaricato di quelle riforme poco digeribili senza che nessuno si prenda la responsabilità delle scelte.
“Il Paese potrebbe trarre maggior vantaggio – spiegano gli estensori dello studio da un parlamento paralizzato che non da governi a maggioranza debole”. Se nessuno sta governando, “ nessuno può lamentarsi per l’introduzione di riforme impopolari e tasse” e quindi “un parlamento senza maggioranza – e un governo ad interim basato su una maggioranza fluida – potrebbe consentire all’Italia (e all’Europa) di completare un processo che istituzioni più deboli hanno iniziato nel 2011″.
Una riedizione del governo tecnico Monti, insomma, che completi il percorso iniziato all’epoca: gli analisti parlano di “un calcio d’inizio di un ciclo virtuoso”, dato che l’Italia “non sta meglio rispetto al settembre del 2011, al picco della crisi che portò all’uscita di scena di Silvio Berlusconi: il debito pubblico è oggi al 133,5% contro il 116,5% del Pil del 2011, con le misure straordinarie della Bce (Qe) che volgono al termine. Il Pil reale è ancora giù del 2% rispetto al secondo trimestre 2011, la produzione industriale del secondo trimestre 2016 era ancora del 16% più bassa rispetto al 2008; il tasso di disoccupazione è più elevato del 2,7% rispetto al 2011 nonostante il jobs act”. Peccato che, riforma del lavoro a parte, le principali responsabilità di questo desolante quadro siano da rintracciarsi proprio dall’esecutivo Monti in avanti. A partire dagli indicatori sull’indebitamento: pensare che il rapporto debito/Pil potesse ridursi mentre si obbligava con l’austerità il denominatore a calare dimostra non solo una scarsa conoscenza dell’economia, ma proprio della matematica elementare. Così come era da ricovero coatto credere di non far schizzare all’insù la disoccupazione (specie quella giovanile) costringendo chi stava per raggiungere la pensione a rimanere al lavoro, bloccando di fatto il fisiologico turnover aziendale, vero Elsa Fornero? Stesso discorso per la produzione industriale, che non va propriamente d’accordo con la desertificazione della domanda interna. Tutto merito della pagina più nera della seconda repubblica: quel governo tecnico avrà sì salvato l’eurozona, sacrificando però l’Italia. E ora qualcuno vorrebbe pure riproporcelo.
Filippo Burla
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